LA GUERRA DEGLI ANGELI
CONTRIBUTO AD UNA FENOMENOLOGIA DEI VISSUTI BELLICI
§
1. Un mitologhema perduto
"Sancte Michael
Archangele, defende nos in proelio". L'antica e perduta invocazione cristiana rivolta al Principe celeste, al supremo Condottiero delle
armate dell'Altissimo, Signore degli eserciti, s'alzava a chiudere con inattesa
drammaticità il discorso che il Pontefice Giovanni Paolo II, in visita ufficiale
sul Monte Gargano, aveva indirizzato alla folla di devoti assiepati nei pressi
del Santuario di S. Michele Arcangelo, la mattina del 24 maggio 1987.1
Era, questa, l'implorazione rituale che, per volere di Leone XIII, doveva
essere recitata dai fedeli al termine della Santa Messa e che, dopo il Concilio
Vaticano II e l'odierna eclisse della Chiesa "militante"2,
era caduta in disuso.
Ai giornalisti
presenti non era, comunque, sfuggito il singolare contenuto della preghiera,
risuscitata autorevolmente in tempi "postmoderni"3.
Certo, data la particolare circostanza, essa, associata inoltre all'esplicito
avvertimento papale della pericolosa presenza di Satana, "tuttora vivo
ed operante nel mondo"4,
era in perfetta sintonia con l'indole stessa dell'arcano e "selvaggio"
sito micaelitico – «Terribilis est locus
iste», ci ammonisce ancor oggi una lapide all'ingresso della santa spelonca
– che, per una tradizione devozionale, colta e popolare ad un tempo, risalente agli inizi del IV sec.5,
ci rinvia al grande e tuttavia "obsoleto" motivo mitico-rituale6
della terrificante lotta senza quartiere, vittoriosamente ingaggiata nei cieli
e sulla terra dal formidabile stratega celeste contro le forze avverse guidate
dal "grande Dragone", dal "Serpente antico", per difendere
dal Male il popolo di Israele, prima, e la Chiesa di Cristo7,
poi. Tuttavia, non era proprio questa adesione del Pontefice romano al sentire
di remoti tempi ritenuti "barbarici" e allo spirito di un luogo
cultuale aereo e ctonio del tutto particolare8,
remoto santuario bizantino e tempio nazionale dei principi e dei guerrieri
longobardi, a sconvolgere i quadri percettivi e concettuali dei nostri distratti
contemporanei. Ciò che oggi è divenuta assolutamente "indigeribile"
è, piuttosto, l'idea della vivente realtà del Male e del Bene, della realtà
della guerra endemica in cui queste entità sacrali cosmiche si misurano a
vicenda, scontrandosi, forse, fin
dall'alba del mondo, della realtà
degli eserciti celesti ed inferi schierati su campi di battaglia estesi come
l'universo stesso, della realtà
del coinvolgimento di tutti gli uomini e dell'intero cosmo in inesausti duelli,
piccoli e grandi, in una guerra che si placherà – stando alle rivelazioni
oracolari dell'Apocalisse – solo dopo l'ardua e, tuttavia, vittoriosa battaglia
campale e la distruzione radicale e definitiva del Male. Un mitologhema, questo,
remoto, oscuro e imbarazzante.
§ 2.
Fenomenologia della rivelazione
A partire dall'Evo
moderno, infatti, la cultura religiosa e laica d'Occidente, privilegiando,
in linea tendenziale, l'interpretazione allegorica, metaforica e simbolica
degli eventi e dei gesti dell'universo sacrale - e non solo di questo - è
sfociata fatalmente nella totale
derealizzazione dell'universo mitico rituale.
Non è, certo, questa la sede più adatta per affrontare - sia pure di sfuggita
- l'analisi di un tema che esigerebbe una non facile ricognizione storica,
teologica, filosofica e antropologica, onde seguire le vicissitudini di un
imponente lavorio concettuale plurimillenario, già avviatosi con la filosofia
greca delle origini. Occorre, tuttavia,
almeno, avvertire che, a mio avviso, l'impiego9
di metodi, di categorie e di dicotomie mutuate dal pensiero filosofico greco,
come, ad esempio, della nota e cruciale distinzione tra lo spirito (nous) e la materia (hyle), per comprendere e per approfondire con la "ragione"
i fatti rivelativi cristiani che, come del resto fanno tutti i
fatti rivelativi, si sottraggono del tutto a principi e a concetti filosofici
occidentali perché questi non hanno
base rivelativa alcuna, ha segnato profondamente e precocemente il messaggio
di Gesù. L'universo sacrale, che è realissimo per eccellenza proprio perché è destinato funzionalmente ad
elargire all'uomo realtà (esistenza) e verità (senso) mediante rivelazioni
mitico-rituali, ha perso, così,
valore ed efficacia reali, riducendosi
alla sfera soggettiva della mera interiorità spirituale, quando non a quella
del tutto inconsistente del poetico e del fantasmatico, buona solo a soddisfare
gli appetiti della emozione estetica o la naturale sete umana del meraviglioso,
non certo i bisogni di sempre, quelli urgenti e drammatici, di senso e di
salvezza.
Le analisi dell'origine
e delle vicissitudini della guerra angelica vengono, allora, in questo testo,
ancorate direttamente ed esclusivamente ai dati rivelativi a disposizione
sull'argomento, cioè, anzitutto, ai testi canonici (Antico e Nuovo Testamento), poi a quelli
apocrifi e, persino, a quelli della cosiddetta tradizione popolare10
e, ancora, in subordine, a tutte quelle interpretazioni che, comunque, appaiono
attenersi a tali testimonianze, senza far intervenire categorie e strumenti
ermeneutici di provenienza culturale estranea, cioè di origine non rivelativa11.
Solo così è possibile cogliere il senso razionale (logos)12
di questo enigmatico conflitto sacrale - divenuto talmente alieno nella nostra
cultura da sembrare del tutto incredibile - e individuarlo, infine, nella
sua consistenza letterale e propria. Ed è proprio l'isolamento analitico di
questo specifico senso rivelativo, cioè della ragione (logos) interna delle molteplici
e variegate testimonianze della guerra angelica a costituire l'obbiettivo
principale del presente scritto e sottrarre, così, uno dei motivi mitico-rituali
più rutilanti, fantasmagorici e arcani all'ipoteca di quelle interpretazioni
usuali e corrive che lo relegano nelle comode zone franche dell'irrazionalismo
umano in cui si ritiene lecito pensare in assoluta libertà qualunque cosa.
Queste ospitano, di norma, alla rinfusa, le immaginazioni collettive delle
culture cosiddette "selvagge"
e "incolte" di oggi e di ieri, le superstizioni degli adulti ignoranti,
le fiabe dei bambini e le gelide farneticazioni degli psicopatici.
Ma, per muovere con sicurezza verso la direzione suindicata, occorrerà,
subito, chiarire in via preliminare -
sebbene solo di sfuggita - alcuni presupposti teoretici di fondo che dovrebbero
consentire una comprensione pertinente e approfondita della natura e delle
strutture generali dell'esperienza sacrale, perché questa genera, alimenta
e giustifica l'esistenza e il senso degli angeli e della loro stessa guerra.
Sebbene appartengano
entrambi a pieno titolo all'indefinito e vago mondo delle manifestazioni –
visive, sonore, olfattive, gustative e tattili – i dati rivelativi non sono
assimilabili in alcun modo ai dati d'esperienza – di quella qualificata come
"naturale" o "comune" – e, pertanto, essi non devono e
non possono essere trattati dal pensiero razionale filosofico e scientifico
d'Occidente come esso, per la loro comprensione, tratta, di norma, i dati
d'esperienza. L'apparente banalità di questa affermazione svanisce subito,
se si precisa subito che questa loro reciproca estraneità non è attribuibile
in alcun modo alla nota differenza tra l'indole naturale del dato d'esperienza e quella
soprannaturale del dato rivelativo - come
si ritiene per consenso pacifico dagli studiosi di religione – perché la dicotomia
"naturale/soprannaturale", di norma impiegata ampiamente sul terreno
rivelativo come ovvia, origina nella filosofia greca, il cui logos è geneticamente e strutturalmente
privo di fondamento rivelativo alcuno ed è, pertanto, estraneo per essenza
costitutiva ed operativa a qualunque contenuto rivelativo. Ciò che li distingue,
insomma, va individuato analizzando le intrinseche strutture di senso delle
manifestazioni, assumendole così come si danno, e non proiettando su di esse
categorie e dicotomie a loro "esterne", cioè mutuate da contesti
e da atteggiamenti culturali alieni.
La manifestazione
esperienziale è a priori fenomenica
e tale condizione essenziale la consegna ad uno status permanente di inadeguatezza cognitiva
e di precarietà esistenziale, che appare incolmabile da qualunque integrazione
intuitiva, perché nel fenomeno l'apparire non coincide - se non casualmente
- con l'essere, cioè con la realtà stessa. Questa devastante frattura di origine
culturale13 è
stata di norma affrontata in Occidente, fin dagli inizi della stessa filosofia
in quei territori orientali della grecità arcaica - ove tale divaricazione
si è rivelata per la prima volta -, impiegando
come protesi per la sua ricomposizione artificiale un logos vuoto, cioè puramente relazionale14,
che è costitutivo della struttura essenziale della stessa conoscenza qualificata
come "oggettiva", cioè della teoria filosofica e, soprattutto, di
quella scientifica propriamente detta15. Ma l'indole malsicura e instabile della
manifestazione fenomenica genera un'altra cruciale dicotomia che è esclusiva
della cultura occidentale e che va, per altro, relata a tutte le altre distinzioni
che in tale cultura sono via via emerse.
Se nella manifestazione
fenomenica l'apparire non coincide con l'essere e il fenomeno non è più e
sempre testimonio fedele della natura della realtà, è comprensibile l'insorgere
di un complesso quesito, cui la conoscenza comune, filosofica e scientifica
hanno cercato da sempre, insieme, sia pure con mezzi diversi, di rispondere.
Di fronte all'intrinseca ambiguità di un dato fenomenico qualsiasi, cioè del
dato d'esperienza propriamente detto, quale aspetto di esso pertiene alla
realtà vera e propria e quale, invece, non le pertiene? E l'aspetto che non
pertiene alla realtà, e che pure contestualmente si manifesta, a cosa mai
può pertenere ? La risposta a tali
domande, strettamente interconnesse, ha condotto all'individuazione e all'articolazione
filosofica e scientifica di due universi separati e tuttavia relati tra di
loro, quello "esterno" e "trascendente" della natura (mondo)
e quello "interno" ed "immanente"
della coscienza, cui, evidentemente, si è ritenuto pertenga ciò che non è
attinente all'altro. Così, da questa ambiguità fondamentale della manifestazione
fenomenica, che la cultura occidentale non ha assunto come il prodotto di
remote e inattese mutazioni culturali, ma come la condizione esistenziale
e cognitiva propria dell'uomo in quanto tale nei suoi rapporti con il mondo,
sorgono e si impongono, oltre a quelle già prima elencate, altre importanti
e significative dicotomie concettuali. Alludo a fondamentali distinzioni quali
quelle tra i segni - tra cui, soprattutto, il linguaggio propriamente detto - e la realtà cui essi alludono, tra il soggetto
e l'oggetto, tra lo spirito (nous)
e la materia (hyle), tra la mente
e il corpo dell'uomo, tra l'idea e la cosa, tra il senso (essenza) ed i fatti,
tra l'immagine fantastica ed onirica e quella fornitaci dall'esperienza nello
stato di veglia, etc..
La manifestazione
rivelativa, invece, è a priori non
fenomenica, perché essa ignora del tutto la divaricazione occidentale tra
apparire ed essere. Escludendo gli stati devianti, quelli indotti dall'errore
o dal disturbo patologico - tutte ragioni del tutto contingenti -
è implicita nell'essenza stessa e nell'economia dell'evento rivelativo
la necessità che esso debba testimoniare direttamente ed immediatamente il
reale, così come esso è16. L'Essere stesso qui emerge, per così
dire, in superficie, disegnato a rilievo dal mobile dispiegarsi delle apparizioni
stesse. E in tal senso, essendo la manifestazione rivelativa "pesante",
stabile, adeguata e realissima come nessun'altra, la ricerca della realtà
dell'Essere al di là dei fenomeni e dello stesso soggetto, che contrassegna
da sempre l'impresa filosofica e scientifica
occidentale, non è rinvenibile in alcuna delle culture fondate sulla postura
rivelativa. Sarebbe un totale non senso. Del resto, in quanto manifestazione
adeguata, cioè priva a priori di "rimandi" o di "scorci"
verso orizzonti di ulteriorità per l'attuazione delle necessarie integrazioni
cognitive ed esistenziali mediante specifiche protesi logiche che proiettano
ipotesi al di là del piano fenomenico - come accade sempre in Occidente, ove
i dati manifestativi sono insaturi nel loro intimo statuto di senso - è la
manifestazione rivelativa stessa ad esibire il proprio contenuto di senso
e di verità che essa, rivelandosi, porta in sé17.
Se, ora, si affronta
l'analisi dei testi rivelativi sugli angeli e sulle guerre angeliche, cercando
di cogliere il senso che gli estensori di tali testimonianze si erano formati
intorno a questi esseri e ai loro comportamenti ed evitando di allestire una
immagine ad hoc di essi, cioè quanto
meno stridente possibile con le nostre attuali convinzioni culturali, è evidente
che non è consigliabile utilizzare in tale analisi quei concetti e quelle
molteplici dicotomie che sono state elaborate e sono state ritenute come ovvie
dal pensiero filosofico e scientifico occidentale Ma va, soprattutto, precisato
che il termine "reale", qui impiegato proprio in riferimento a tutte
le manifestazioni rivelative e, per antonomasia, a tutte quelle sacrali, va
assunto in una accezione semantica del tutto particolare. La realtà intrinseca
della manifestazione rivelativa non è in alcun modo sinonimo di materialità,
di corporeità, di fisicità e tanto meno di quella "oggettività"
costruita, relazionando i dati d'esperienza, dal pensiero filosofico e scientifico
occidentale. Poiché negli universi mitico-rituali, poi, non esistono quelle
note determinazioni "della interiorità", come "spirito",
"mente", "idea", "anima", "psiche",
"cultura", riferite ad entità autonome, separate e opposte alla
sfera "materiale", " corporea", "naturale",
tutto ciò che si rivela – sia esso sacrale o no – è sempre "animato",
cioè dotato di senso, di intelligenza, di sentimento e di volontà propri.
Infatti, come si vedrà poco più avanti, la coscienza "immanente",
quella egocentrata e chiusa in se stessa come una monade nei confronti del
cosiddetto "mondo esterno", non esiste e non può esistere nella postura rivelativa18.
In questa, il suo singolare status di realtà "aperta" impersonale
la rende del tutto permeabile a
quelle incredibili "intrusioni",
"occupazioni" e "possessioni" da parte di entità sacrali
e non sacrali, benigne o maligne, che notoriamente determinano i modi ordinari
e straordinari delle possibili relazioni tra gli uomini e quelle tra di essi
ed il cosmo nelle culture a fondamento rivelativo19.
E questa è la base razionale di
quel cosiddetto "mondo incantato" – per gli occidentali moderni
del tutto incomprensibile – che è tale proprio perché ignora quell'idea di
"materia", inventata e definita dal logos occidentale in opposizione all'idea di "mente" o di
"spirito", come qualcosa di
elementare, di ottuso e di inanimato che giace al fondo di ogni esistenza,
del tutto impenetrabile, essendo privo di intelligenza e di volontà autonome
proprie. Un concetto, questo, del tutto singolare, perché, sebbene sia
stato inventato dal logos occidentale
filosofico e scientifico, è stato pensato come un concetto-limite dello stesso logos
e, soprattutto, della mente (nous),
e appare destinato, quindi, con un simile statuto logico ed ontologico a sottrarsi
indefinitamente ad ogni tentativo di prensione diretta.
§ 3.
Rivelazione e rivelazione sacrale
Con l'espressione
"postura rivelativa"20
si intende quel generale atteggiarsi esistenziale e cognitivo della coscienza
umana, specificamente impersonale,
rilevabile presso alcune culture – essenzialmente in tutte quelle a fondamento
mitico-rituale – secondo il quale il conoscere, il sentire, il volere, l'agire
umani e i loro relativi contenuti e/o referenti, pur riconosciuti e assunti
come pertinenti alla sfera della coscienza e come suoi reali o possibili possessi,
non sono assunti come originati dalla coscienza stessa, quali atti relativamente
liberi e autonomi di essa, ma sono sempre elargiti o consentiti da volontà
e da intelligenze "altre". La coscienza impersonale, quindi, è una
modalità peculiare di aver coscienza che, a differenza della coscienza personale,
diretta e riflettente per autoreferenzialità – impostasi saldamente in Occidente
a partire soprattutto dalla modernità – si costituisce e si fonda solo per
una via indiretta e mediata, come "di rimbalzo", cioè tramite l'acquisizione
dei molti e vari modi intenzionali (cognizioni, sentimenti, volizioni, valutazioni,
etc.) che si mostrano sempre indissolubilmente sedimentati, come si è visto,
nelle realtà che rivelativamente si danno21.
Queste, insomma, con il loro manifestarsi, elargiscono alla coscienza impersonale
non solo il senso del mondo, ma anche il senso di se medesima.
Ma non tutto
ciò che si rivela è Sacro, è, cioè, "parola del Signore". La postura
rivelativa, infatti, è solo il prerequisito, cioè la condizione necessaria
perché il Sacro – se, quando e come vuole – possa manifestarsi ad una coscienza
impersonale in postura rivelativa, ma non è anche sufficiente. Le analisi
delle culture del nostro pianeta a fondamento mitico-rituale hanno ecumenicamente
attestato che solo le manifestazioni potenti (cratofanie) sono sacrali (ierofanie)
e che quindi la cratofania è l'essenza stessa della ierofania. Abbandonando, allora, le usuali attribuzioni
distintive che identificano il Sacro con il soprannaturale e il profano con
il naturale, si evidenzia fenomenologicamente che la sfera profana coincide,
diversamente da quella sacra, con l'ambito della rivelazione impotente, con
la coscienza, cioè, di quella intrinseca, insuperabile, debolezza che è propria della condizione dell'uomo e del
cosmo, se questi sono abbandonati a loro stessi. Ma, cosa si intende,
ora, specificamente, col termine "potenza" e quali sono i contenuti
e le funzioni della ierofania ?
In linea generalissima,
è potente solo quella manifestazione che si rivela titolare e gestrice, in
forma assoluta o relativa, di ciò che è necessario per l'esistere umano e
cosmico e di cui la condizione profana è autonomamente priva, cioè di vita
(esistenza) e di senso. Nelle culture a base mitico-rituale si ritiene che
l'uomo e l'universo possano esistere e condurre una esistenza abitata e retta
da un senso solo se essi sono sostenuti quotidianamente da figure potenti
soccorrevoli, invocate nei momenti di crisi ad intervenire "realmente"
mediante i riti. E va, subito, segnalato che, se il Sacro non è altro che
potenza, esso, allora, non può collimare necessariamente con il Bene, secondo
la filosofia e la teologia cristiane. Anche il Male – indipendentemente, ora, se coincida o meno con la
stessa figura potente benefica – è potenza sacrale, perché, come titolare
e gestore in negativo di vita e di senso, tende intenzionalmente a sottrarli
alle comunità umane e all'intero cosmo-ambiente in cui esse vivono22,
rivelando, così, facoltà non umane.
Sono questi,
quindi, i presupposti razionali della diffusa attribuzione di responsabilità
di tutti23
i vari e molteplici stati esistenziali di benessere o di malessere dell'uomo
e del mondo, da parte di culture a fondamento mitico-rituale, all'intenzionalità,
sovente imperscrutabile e gratuita, ma sempre intelligente e volitiva, di
figure potenti benigne e maligne e, quindi, sacrali e sovrumane, che non sono né corporee e né spirituali, bensì,
come già precisato, reali, anzi iperreali.
E tale iperrealtà sacrale sembra concretizzarsi, in linea tendenziale, sia con l'entificazione e l'autonomizzazione
di determinazioni che nella filosofia occidentale sono ritenute, di norma,
"insostanziali", cioè "dipendenti" – come le qualità,
gli attributi e le azioni delle cose e delle persone –, sia con il conferire
ad essa una sostanzialità elusiva, appena accessibile ai sensi, come il soffio,
il vento, la nube24, la fiamma,
la luce, il suono, il profumo, il fetore25,
la caligine, etc.26.
Ma, siano tali potenze uniche o
molteplici, d'origine coeva tra di loro o no, equipollenti e dualisticamente
assolute – in senso manicheistico – o no, esse si manifestano sempre affrontantisi
in un arcano dissidio insanabile e radicale che si concretizza in vere e proprie
guerre, piccole e grandi, in cui vengono coinvolti realmente e direttamente l'uomo e il cosmo.
Ma se il Male ha una origine sacrale – comunque intesa – è evidente che l'uomo
– essenzialmente impotente – non può sostenerne l'urto distruttivo che, per
altro, è diffuso, pervasivo e continuo, senza il supporto salvifico delle
potenze che avversano il Male. Va, anzi, affermato, in linea generalissima,
che nei contesti culturali a fondamento mitico-rituale l'uomo, a causa della
postura rivelativa che ha assunto, ha coscienza del male e del bene e agisce
male e bene solo perché le potenze sacrali benigne e maligne lo inducono con
la loro semplice, irresistibile presenza invasiva a pensare e a comportarsi
così. L'uomo e il cosmo, in altri termini, non sono mai attori indipendenti
degli accadimenti che li concernono, ma semplici comparse e testimoni posseduti
e agiti da ierofanie creatrici e distruttrici che confliggono tra di loro
pro e contro l'esistenza e il senso. E poiché tutto ciò è originariamente
rivelato nei miti, che non sono semplici racconti o raffigurazioni di esseri
fantastici e delle loro azioni mirabolanti, bensì uniche fonti di conoscenze
vere, paradigmi di comportamento, modelli ermeneutici e prototipi pragmatici
per la riattivazione dei gesti delle figure potenti in funzione salvifica
(riti). A tali miti, quindi, occorre necessariamente rivolgersi in sede di
analisi della guerra angelica.
§ 4.
Il male mitico
Le fonti veterotestamentarie
sono ambigue, anzi, reticenti sull'origine del Male27
e non dicono, poi, addirittura, nulla su quando e come gli angeli siano stati
creati. Ad un certo punto della narrazione biblica, un cherubino con (?) la
fiamma di una spada improvvisamente appare, a guardia del fronte orientale
del Giardino dell'Eden28,
ma, in generale, le presenze e le azioni degli angeli, buoni o cattivi, non
sono sempre chiaramente distinguibili da quelle di Yahweh stesso, onde la
tesi che gli angeli si possano assumere -
in linea, del resto, con evidenti precedenti
culturali dei semiti mesopotamici e non solo di questi - come epifanie
di attributi, facoltà, azioni di Dio stesso e contestualmente come figure
a sé, non è certo azzardata29,
se ci si richiama a quanto prima affermato. Ma è bene analizzare il racconto
della Creazione.
«In principio
Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre
ricoprivano l'Abisso (Tehom) e lo
spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse "Sia la luce !"
E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa
buona e separò la luce dalle tenebre».30
Da dove vengono queste "acque" sulle quali "aleggia lo Spirito
di Dio" ? Se non si risponde a questa preliminare domanda che è importante
per la presente analisi, è difficile capire, tra l'altro, cosa fece Dio il
primo giorno. Ma, se si riflette, ora, su ciò che creò Yahweh il secondo e
il terzo giorno, ci si accorge che, probabilmente, i termini "cielo",
"terra" e "acque", usati nel racconto del primo giorno,
non significano quello che di norma si intende con essi. «"Sia il firmamento
in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque." Dio fece il firmamento
e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra
il firmamento. Dio chiamò il firmamento cielo». «"Le acque che sono sotto
il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto." E così
avvenne. Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare»31.
Appare, allora, probabile che Yahweh, non diversamente da molte altre potenze
creatrici, abbia iniziato le sue fatiche cosmogoniche affrontando e intaccando
con inevitabile violenza la realtà acosmica e tenebrosa del Caos primigenio
costituito dalle Acque primordiali,
con il gesto esemplare e originario di separare ciò che era confuso e tenebroso,
di rompere, quindi, l'uniformità indeterminata delle tenebre distinguendole
dalla luce, allestendo, così, il primo abbozzo di un ordine universale là
dove prima esisteva solo un informe e oscuro disordine.
In
altri termini, nel primo giorno Yahweh divise32
in due parti le Acque originarie, chiamando cielo quelle superiori e terra
quelle inferiori – significativamente qualificata come «informe e deserta»
– mentre il suo Spirito restava ad aleggiare nelle tenebre su queste acque
da Lui divise. Poi, creando la luce, distinse ulteriormente il giorno dalla
notte. Nel secondo giorno creò il firmamento – chiamandolo più propriamente
"cielo" – cioè una specie di volta solida «come specchio di metallo
fuso»33
quale diga per arginare lo straripamento delle acque di sopra34
– e solo nel terzo giorno, raccogliendo le acque di sotto in un'area circoscritta,
creò il mare e la terra vera e propria, sul cui fronte il mare è destinato
a infrangersi senza poterli oltrepassare contro la volontà di Yahweh. Il cielo
e la terra, allora, non sono altro che i baluardi di contenimento posti da
Yahweh contro la violenza potenzialmente sempre eversiva delle acque "di
sopra" e "di sotto", perché esse tendono a rimescolarsi, come
lo erano prima della Creazione.
È erroneo, poi,
ritenere che l'esistenza di qualcosa di originariamente coevo e che stia accanto
a Yahweh prima del Suo atto creativo confligga con la tesi della creazione
dell'universo dal Nulla da parte del Dio giudaico-cristiano. Infatti, prescindendo
dal rilievo che la prima testimonianza biblica di «una creazione dal nulla»
sia notoriamente tarda e la si trovi in un passo del secondo libro dei Maccabei35, è proprio il
significato mitico-rituale del termine "Nulla" ad essere frainteso da una interpretazione
fondata su cruciali categorie della filosofia ellenica36.
Infatti, concependo in modo puramente tautologico (vuoto) il Nulla come la
pura negazione logica e ontologica dell'Essere e aborrendo come contraddittoria
l'idea della esistenza di un Nulla inteso come Non-essere, tale significato
diventa del tutto stravolgente se viene esteso, senza alcuna cautela, proiettandolo
sul mitologhema dello stato dell'esistenza prima di qualunque evento cosmogonico.
Infatti, il saldo realismo dell'universo mitico, secondo cui sarebbe del tutto
impossibile ed incomprensibile qualunque modalità di pensiero che intenda
qualcosa a vuoto, cioè privo di un qualsiasi riempimento da parte di intuizioni
reali, impone di necessità una interpretazione
crudamente realistica dell'intera terminologia mitica, anche di quella che
si riferisce abnormemente non solo al Caos delle origini, ma anche al Nulla
stesso. Il Nulla al cospetto di Yahweh, insomma, – riprendendo, per altro,
un antichissimo tema mitico mediterraneo, di matrice mesopotamica, egiziana
e siro-palestinese – è costituito dalle Acque primordiali,37
esistenze potenti, tenebrose e terrifiche, perché caotiche e quindi, di necessità, essenzialmente nullificanti. Si è pervenuti, così, seguendo labili tracce, ad un
arcano ed enigmatico motivo mitico che, una volta dissepolto, mostra l'intima
genesi, la logica implacabile e l'inevitabilità fatale di un immane conflitto
cosmico tra potenze sacrali avverse, rilevabili in precisi contesti mitico-rituali.
L'inaudita potenza
del glorioso gesto creatore è espressa proprio dalla smisurata energia che
deve essere impiegata per poter vincere le caotiche forze del Nulla, la cui
"immane potenza negativa", riposando proprio sulla inerzia, sulla
stasi, sulla entropia di uno stato esistenziale amorfo, insensato e sterile,
può essere affrontata e domata solo
aggredendola violentemente e sorvegliando, poi, implacabilmente quanto di
essa è rimasto dopo la vittoria creatrice. Del resto, se l'opera della
creazione è buona, come ribadisce reiteratamente il racconto della Genesi,
tutto ciò che la ostacola e tende a distruggerla non può che essere Male.
Con l'inevitabile accanita resistenza delle potenze sacrali maligne all'irrompere
e alla conservazione della Creazione, comunque esse vengano intese, cioè come
Nulla, come Acque, come Serpente, come Drago degli Abissi o come Leviatano
– tutte epifanie acquatiche similari o strettamente apparentate – o, infine,
come Satana, come Potestà e come Dominazioni, etc., è comprensibile che alcuni
celebri miti etnici, spesso conservati nelle tradizioni popolari, abbiano
rivelato non solo l'esistenza di una vera e propria guerra vittoriosa e, quindi,
creatrice svoltasi agli inizi del Mondo38,
ma anche il permanere attuale e quotidiano di tale irrisolto conflitto per
gli assalti multiformi e reiterati delle potenze eversive che esse lanciano
dai confini del mondo, in cui sovente sono relegate, o filtrando tra gli interstizi39
dello spazio e del tempo cosmici, e che terminerà – se esistono attestazioni
oracolari in tal senso, come, ad es., lo sono le Apocalissi giudaiche e cristiane – solo con lo scontro campale della
fine del Mondo. In definitiva, soccombere alle forze del Male significa, di
fatto, per l'uomo e per il cosmo, regredire ad uno stato di disordine, totale
o parziale, ad una condizione esistenziale negativa, informe e ottusa, di
cui il Caos acqueo che tutto livellava e azzerava nei primordi costituisce
il modello mitico paradigmatico40. Dato lo stato di impotenza radicale dell'uomo
e del mondo, sottoposti quotidianamente alle aggressioni grandi o piccole
da parte delle forze del Male, le potenze del Bene, per conservare integre
le proprie creazioni, sono costrette direttamente o tramite intermediari potenti
ad una continua attività salvifica di sorveglianza e di repressione che, in
occasione di eventi particolari, ritenuti dai singoli e dalle comunità importanti
e significativi per la loro esistenza, diventano eccezionalmente percepibili41.
§ 5.
Gli angeli e i loro demoni
La rassegna delle
figure protagoniste di queste guerre cosmiche, anche se circoscritta eminentemente
alle culture religiose premoderne giudaiche e cristiane delle sponde del Mediterraneo,
si rivela non facile, sia per la copiosità e l'eterogeneità delle fonti, che
per la natura quasi sempre sfuggente degli agenti stessi. Così, senza intendere,
comunque, tale contrasto mitico necessariamente come coinvolgente forze equipotenti
e autonome, manicheisticamente42
opposte come la luce e le tenebre, vanno annoverati, in area veterotestamentaria,
da una parte un Essere Supremo, celeste e uranico, onniveggente, Creatore
e Signore del mondo, Dio degli eserciti, l'Alleato del popolo eletto, Yahweh43,
insieme all'elusivo universo dei Suoi divini servitori fedeli, denominati
ellenicamente "Angeli"44,
di cui solo alcuni nomi sono noti e ricorrenti nei testi. Nella corte celeste
questi "figli di Dio"45
rivestono ruoli specifici e svolgono molteplici funzioni amministrative per delega divina. Essi sarebbero
distribuiti, secondo lo Pseudo Dionigi l'Areopagita, in un ordine46
rigorosamente gerarchico e, come ministri, guerrieri47,
informatori, scribi, servitori (conduttori degli astri, interpreti, intercessori,
misuratori, custodi di individui e di intere nazioni, psicopompi) etc., stanno
agli ordini indiscutibili e non sempre comprensibili da parte degli umani
di Yahweh48.
Ma se, in definitiva, l'esercito celeste è costituito da tutti gli Angeli49,
colui che si oppone decisamente a Satana, che è il Principe di questo mondo50,
è l'Arcangelo Michele, il grande Condottiero, che i giusti si troveranno accanto
nel «tempo della grande angoscia», quello dell'inizio bellico della fine del
mondo51. Poi, dopo l'avvento
del Nuovo Testamento, i cristiani hanno creduto che queste figure potenti
stessero nei cieli accanto al figliolo di Yahweh e di Maria di Nazareth, Gesù,
accanto alla Sua divina Madre e a tutti i Suoi Santi, sebbene – a proposito
del tema in analisi – va ricordato che Cristo e la quasi totalità dei Santi
della Chiesa, pur soccorrevoli e determinati nei confronti degli umani, non
spiccano, tuttavia, stando alle testimonianze, per precise vocazioni belliche
o per specifiche virtù militari52.
Dall'altra, le
potenze avverse del Male, tenebrose ed infere – siano esse precosmiche o generatesi
successivamente da una ribellione angelica per gelosia degli uomini53
– , sarebbero distribuite anch'esse, seguendo tardivamente il modello angelico
proposto dall'Areopagita, in un ordine gerarchico di tipo burocratico-militare
in cui i demoni sono raggruppati in legioni di 6666 unità, comandate – in
un numero oscillante tra 200 (sotto il demone Paymon) e 10 (sotto il demone
Valefar) – da re, principi, duchi, marchesi, conti e presidenti54.
Tali sinistre, fantasmatiche, figure risaltano non già per una iconografia
"mostruosa"55
che, in realtà, è da loro condivisa – come si vedrà – con gli stessi Angeli,
ma, piuttosto, per un'indole totalmente aliena,56
fatta di cieca e ostinata violenza, di comportamenti abnormi e sconvenienti,
difficilmente prevedibili e controllabili, da cui traspaiono i tratti dell'ancestrale
origine caotica e del disordine precosmico, di cui la multiforme genealogia
maligna – sebbene creata da Dio – non è che un vivente relitto fossile. Agiscono,
presumibilmente "a mezz'aria", tra la sede celeste dell'Altissimo
e la terra abitata dagli uomini57,
a portata, per così dire, d'uomo e d'Angelo, e proprio in tali bassure, dove
l'aria è più densa, caliginosa, umida e, quindi, acquosa58,
avvengono le più spettacolari e terrifiche ierofanie - anche ominose - dell'immane
conflitto59. Il Male (infermità, vecchiaia, sterilità e
morti di uomini, di animali, e di vegetali, carestie e disastri naturali,
come inondazioni, siccità, incendi, terremoti, o sociali come disordini intestini
e guerre, infine turbe di ogni specie, etc.), insomma, è da intendere, in
blocco, "realisticamente" ed "essenzialmente" – cioè miticamente
– come la regressione distruttiva, parziale o totale, dall'ordine al disordine,
cioè dal Cosmo naturale e sociale al Caos delle origini60.
Tale potenza implosiva va affrontata con ogni mezzo di vigilanza e di repressione
implacabili e la stessa vendetta divina non è altro che l'abbandono dei nemici
di Dio nelle fauci leonine del Male61.
L'ossessiva e, tuttavia, reticente fenomenologia eminentemente rettile e ofidica62
del Maligno nell'Antico Testamento, come il Serpente dell' Eden,63
Raab64,
il Drago65, il Leviatano66, il Serpente
«tortuoso e guizzante» (cioè il coccodrillo67),
Tannin, Behemot (l'ippopotamo)68,
non è altro, anche se ritenuta valenza creaturale, che una sequenza di variazioni
epifaniche sul grande tema mitico delle tenebrose Acque primigenie, sopraffatte,
ma non uccise, dalle forze avverse della Creazione. Infine compaiono Satana,
Beliar69,
i Vigilanti70, il Diavolo,
l'Oppositore, l'Avversario, il Nemico del Nuovo Testamento e tale sinistra
figura, immersa nel crogiolo ellenistico di motivi neoplatonici, gnostici,
manichei, ebraici, con influenze iraniche ed indiane, si frantumerà in una
variopinta e tumultuosa fantasmagoria di figure mostruose che indugerà a lungo
fin nella stessa cultura della modernità occidentale, prima di svanire, poi,
lentamente con l'intero universo sacrale nell'innocua irrealtà dell'immaginario
poetico, quello letterario, figurativo e decorativo del nostro secolo che
ama qualificarsi "secolarizzato".
Schierati da
una parte e dall'altra – sebbene ovviamente assenti nel conflitto cosmogonico
– vanno annoverati gli accoliti umani71
delle Potenze in lotta per il predominio sull'Universo, la cui posta in gioco
è la sopravvivenza del mondo stesso o il suo totale annichilimento nel Caos
nullificante delle origini. Dopo quanto inizialmente precisato nella parte,
per così dire, metodologica del testo, tale duplice presenza, umana e sovrumana
nelle guerre – e questo rilievo vale per intendere correttamente in generale
l'indole peculiare di tutti i rapporti intercorrenti tra l'uomo e il divino,
tra le persone fra di loro e tra le persone e le cose mondane rinvenibili
negli universi mitico-rituali – non deve essere intesa come articolata in
due scontri separati, sebbene simultanei: l'uno, per così dire, "a mezz'aria"
tra Angeli e Demoni, l'altro sulla terra tra guerrieri umani. Tali forze,
in realtà, non sono nemmeno semplicemente "mescolate" tra di loro,
bensì singolarmente fuse nel contesto reale degli eventi e, tuttavia, sempre
distinte o distinguibili72. Il Sacro, infatti,
lo si invoca perché possa coniugarsi sempre, ritualmente, con il profano per
soddisfare urgenze profilattiche o salvifiche di qualunque tipo, e tale comunione
deve essere reale per essere efficace, cioè, addirittura, intrusiva nelle
cose e nelle persone stesse coinvolte nei singoli accadimenti, perché altrettanto
invasive sono le azioni del Maligno quando esso irrompe nel mondo73.
E, tuttavia, non verrà mai a cancellarsi la differenza tra il Sacro e il profano,
che resterà sempre polare, quella, appunto, da sempre umanamente drammatica,
tra la potenza divina e l'impotenza radicale di homo. «Tua è la guerra, Signore, e Tua è la vittoria.»74
§ 6.
La guerra mitica
Nella guerra
mitico-rituale, quindi, indipendentemente da particolari manifestazioni ierofaniche
collaterali, per altro frequenti75,
il consiglio strategico-tattico sagace76,
l'azione risoluta ed eroica, la vittoria e la conquista finali, sono sempre
momenti epifanici positivi, terribili e irresistibili, di Yahweh o dei suoi
Angeli nelle menti dei principi, nei cuori e nelle braccia dei guerrieri impegnati
nella mischia77.
Il progetto bellico errato, la paura incontenibile sopraggiunta sui campi
di battaglia, la rotta rovinosa, l'inseguimento da parte dei nemici e la strage
dei guerrieri e degli inermi, con la distruzione e la perdita del paese, sono
tutte epifanie invasive del Male e significano, di fatto, l'abbandono78
del Signore e delle sue schiere celesti per l'ingiustizia commessa – in definitiva
per il tradimento del Patto79
– da parte dei principi e del popolo eletto da Dio e implicano la loro presenza
fortificante negli eserciti dei nemici vittoriosi, scelti da Yahweh come verga,
bastone, scure e spada della Sua punizione80.
Così,
tutte le guerre vittoriose sono sante e giuste, perché l'arcano della guerra
mitico- rituale è la lotta – sempre difensiva, dunque, e quindi, necessaria
e doverosa – contro gli attacchi ostinati del Male, meri episodi di un'unica
guerra mitica, in definitiva, avviata in certe culture mitiche cosmogonicamente
e che terminerà, là dove esistono profezie in proposito, solo alla fine dei
tempi, con la distruzione finale del Male e l'instaurarsi della pace perpetua
sulla Terra. Erroneamente ritenuto espressione del cinismo dei forti, l'adagio
che i vincitori hanno sempre ragione cela piuttosto l'ovvietà teologica che
il Dio di giustizia e coloro che stanno, in quanto giusti, dalla
Sua parte non possono perdere – dato che la sconfitta è mera epifania maligna,
da cui i perdenti in battaglia sono posseduti – e che la guerra mitico-rituale
è da intendere come il più imponente
e oneroso rito apotropaico sacrificale contro
il Male81, volto, a differenza
degli altri riti esorcistici minori e specifici, allo scontro campale e alla
distruzione definitiva di esso senza più resti82.
La guerra nell'Antico Testamento, e non solo nell'ideologia religiosa degli
antichi Germani, è un'ordalia, è un vero e proprio "giudizio di Dio83, a cui sono chiamati, anzitutto, i capi
e, poi, l'intero popolo, che, stando intorno al Centro del mondo84,
ingaggiano, di necessità, battaglie di portata cosmica nel nome del Signore
e della Sua giustizia. E non è certo casuale che S. Michele, lungo la sua lunga storia orientale ed occidentale,
abbia finito col brandire armi e bilance insieme. Ma, dal punto di vista umano,
tuttavia, tali faccende non sono così semplici e, sia pure in una ben diversa
prospettiva, nemmeno dal punto di vista degli Angeli stessi, protettori di
nazioni che possono entrare in guerra tra di loro85.
Per un esercito
umano la vittoria non è mai di per sé la prova di essere nel giusto, di aver
combattuto, cioè, dalla parte della giustizia, sebbene la vittoria sia sempre
e comunque il segno favorevole dell'epifania stessa in battaglia del Signore
degli Eserciti o dell'Arcangelo Michele e delle Sue invincibili legioni. In
realtà, Yahweh scatena la guerra e dà la vittoria non per premiare i giusti,
ma per punire i malvagi, votandoli sempre alla sconfitta e sovente alla morte,
come fece più volte, inesorabilmente, con lo stesso popolo di Israele che
si era traviato86. E tale profondo convincimento, che va
generalizzato per intendere il senso autentico di tutte le guerre - certamente
di quelle a base mitico-rituale - mostra che l'istinto bellico non soddisfa
- per lo meno in prima istanza - la vana ed effimera87
brama di guadagno e di gloria dell'uomo, come in genere si suppone, ma obbedisce
all'ineludibile imperativo ancestrale di eliminare una volta per tutte
il male dal mondo, annientandolo nel nome delle potenze creatrici 88.
La fama e la potenza che possono arridere
al guerriero vittorioso sono solo conseguenze epifenomeniche del raggiungimento
di questo obbiettivo primario. Sopraggiunto, poi, un disastro bellico, che
è sempre la prova dell'abbandono di Dio, si capisce, certo, da che parte realmente
ci si è schierati, ma è arduo, ancora, se pure ci è concesso di sopravvivere,
farsene una ragione. Senza condividere il grandioso pessimismo di Salomone89, si è visto
quanto sia difficile essere giusti o mantenersi tali e quanto sia facile,
invece, assecondare il Male e diventare suoi accoliti. Del resto, pur volendo
essere giusti, si può errare per ignoranza90,
per debolezza di fronte alle molteplici tentazioni delle promesse mondane
di Satana 91,
addirittura per l'inganno tesoci da Dio stesso che ci vuole perdere per i
peccati che abbiamo commesso e consegnarci, così, nelle mani dei nostri nemici92.
E si può errare, persino, pretendendo di giudicare i gesti imperscrutabili
del Signore93.
Ciò che in tali contesti culturali è, in definitiva, terribile e nefando non
è la guerra in sé con il suo inevitabile corteo di violenze distruttive di
beni e di vite umane, perché, anzi, nell'universo mitico-rituale sarebbe demoniaco
astenersi dal combattere il male ovunque esso si annidi e senza dargli quartiere,
ma è piuttosto l'errore – che può anche essere indotto dal Maligno – nell'individuazione
del bersaglio bellico, cioè lo scambio del male con il bene, quello che, inducendoci
ad aggredire i giusti, ci consegna fatalmente al demonio della sconfitta,
dell'ignominia, della schiavitù morale e materiale, se non a quello della
morte. Persino gli Angeli, protettori delle nazioni, possono errare, come
abbiamo visto, entrando in guerra tra di loro quando le nazioni si scontrano,
perché non sanno quello che fanno, almeno finché il Signore, Dio degli eserciti,
non riveli ad essi le proprie ragioni che sono sempre quelle giuste. L'istinto
bellico appare in queste analisi talmente radicato nella condizione disperante
di Homo, che il suo autentico senso
sfugge a qualunque analisi che studi e valuti la guerra muovendo semplicemente
dalle conseguenze, volute o non volute, positive o negative, che essa ha comportato.
Tuttavia, va
ricordato che quella postura rivelativa – relata alla coscienza impersonale
– che sta alla base dell'universo mitico-rituale, lascia all'uomo una indipendenza
di pensieri, di sentimenti e di azioni molto limitata, sebbene tale condizione
esistenziale non sia da intendere come riduttiva o inibente. Infatti, di fronte
ad uno schiacciante schieramento nemico, gremito di carri, di cavalli e di
guerrieri, era sancito dalla legge ebraica che il sacerdote dovesse
rincuorare l'esercito israelita, ricordando che Yahweh fosse in marcia
con esso, e che i condottieri dovessero, addirittura, intimare a coloro che
non avessero potuto ancora godere della vigna, della casa, della sposa o che
avessero semplicemente paura di morire, di abbandonare pure il campo di battaglia94.
La vittoria nelle guerre mitico-rituali, del resto, non dipende dalla moltitudine
delle forze in campo, ma solo dall'aiuto del Cielo95.
Analogamente,
è difficile accostarsi senza stravolgerla con le usuali convinzioni pacifiste96,
oggi molto radicatesi in Occidente dopo due disastrose guerre mondiali e l'avvento
dell'era atomica, alla vasta fenomenologia
bellica del Sacro – soprattutto di matrice veterotestamentaria – ove le reiterate
cratofanie terrifiche di Yahweh97
e degli Angeli e le loro feroci azioni98
distruttive di uomini e di cose, persino quelle in apparenza gratuite a volte
e, comunque, sempre compiaciute, possono rivelare il loro senso, come si è
visto, solo rianimando un universo culturale in preda ad una lotta inevitabile
e implacabile contro ogni rigurgito pericoloso del Male che, se non violentemente
contrastato, collasserebbe il mondo in un Caos acqueo, cioè nel Nulla precosmico99. E non è certo
casuale che «il tumulto delle nazioni» sia assimilato o addirittura identificato
spesso nella Bibbia al «fragore di molte acque» che solo Yahweh può placare
mettendo i popoli nemici – che sono spesso definiti come «popoli da nulla»,
appunto perché «idolatri»100
– in fuga davanti al popolo eletto101.
§ 7.
Mostri divini
Se, anzitutto, qualunque potenza sacrale è terrifica
di per sé, cioè in quanto potenza sovrumana – non si può contemplare il volto
di Dio o soltanto toccare l'Arca dell'Alleanza senza morire102
– è facile immaginare l'orrore incontenibile di un guerriero in battaglia
che avverta su di sé e dentro di sé la intenzionalità bellica di una potenza
sacrale avversa, cioè l'ira di Dio e dei Suoi Angeli. Del resto, l'arrivo
aereo del Signore e, talvolta, degli Angeli stessi è preceduto, di norma,
da fenomeni meteorici e ctonii inattesi e sconvolgenti103,
ma è, soprattutto, lo splendore intenso (la "gloria" di Yahweh),
la luminosità accecante (colonna di fuoco, nube scintillante104,
folgore, vestito bianco sfolgorante105,
occhi di fuoco) l'aspetto fenomenologico eminente e diffuso della manifestazione
potente, benefica e soccorrevole, ed è, quindi, secondo una lunga tradizione
ierofanica del Vicino Oriente Antico106,
il segno del suo possibile riconoscimento da parte degli sgomenti testimoni,
tra la folla di altri maligni spiriti volanti , solitamente di caliginoso
aspetto.
Ma è soprattutto
la cosiddetta "mostruosità" di certi esseri divini – il cui originario
senso è andato smarrito in Occidente, già a partire dai Greci – ad essere
una determinazione della potenza sacrale di accertata portata ecumenica e
in alcun modo indizio specifico di pura demonicità e di intrinseca malvagità.
I "mostri" divini107
sono, in quanto ibridi naturali e/o fantastici, esseri metamorfici, in cui
vengono a coniugarsi insieme – costituendo, tuttavia, un essere univoco del
tutto organico – nature umane, animali e, persino, elementi di origine artificiale.
La mostruosità dell'ibrido non è tanto o solo nella usuale raffigurazione – del tutto sviante,
sebbene inevitabile – che lo presenta sempre come un coacervo di organi o
di parti isolate, appartenenti a specie diverse e da queste "prelevate"
per essere "assemblate", quanto perché viola quel noto principio
occidentale di identità, basato su di un'autoreferenzialità astratta, secondo
il quale una cosa è e deve essere uguale solo e unicamente a se stessa. Infatti,
una figura che presenta un corpo umano con ali di aquila innestate sul dorso
va rettamente intesa come un essere unitario che è contestualmente uomo e
aquila e non metà uomo e metà aquila, perché questi elementi, per una singolare
sineddoche letterale – pars pro toto
–, intendono esibire "iperrealisticamente", concentrandola in se
stessi, la costituzione essenziale della specie riprodotta. E, in tal modo,
il nostro principio logico della identità risulta violato, perché un essere
non può logicamente ed ontologicamente identificarsi con un altro che sia
diverso da sé. Per la cultura ellenica ed occidentale, insomma, coniugare
l'identico con il diverso – che è la base concettuale di ogni metamorfosi
– è il mostruoso logico ed ontologico per eccellenza. Ma qual è, ora, il senso
della generale e pervasiva presenza dell'ibrido nelle credenze religiose del
nostro pianeta ?
Occorre avvertire,
anzitutto, che l'enigmatica sacralizzazione della maggior parte delle specie
animali da parte delle culture della Terra deve spiegarsi come dovuta al giusto
riconoscimento generale e, tuttavia articolato specie per specie, che gli
animali sono dotati di facoltà di cui l'uomo, biologicamente debole, è privo
o le possiede solo in una misura alquanto inferiore rispetto ad altri esseri
viventi. La sacralizzazione di molti animali, quindi, – diversificata non solo in ragione delle specificità
delle culture religiose, ma anche della fauna ambientale, dell'economia alimentare,
etc. – è l'esito inevitabile del riconoscimento di essi come esseri cratofanici
e, quindi, sacrali. L'ibrido naturale e/o fantastico va inteso, pertanto,
come l'espressione di una moltiplicazione esponenziale della potenza cratofanica
e, quindi, della sacralità stessa, cioè come un essere che esibisce,
concentrata in sé, una carica unitaria di potenza inaudita, derivata dalla
fusione delle capacità eminenti o caratterizzanti di alcune specie animali,
ciascuna delle quali è confluita integralmente insieme alle altre in una organica,
univoca, combinazione. L'eccezionale qualità dei multiformi servizi espletabili
nei cieli e sulla terra da tali "mostri"108
– che talvolta appaiono forniti di organi in numero superiore al normale (ad
es., molte ali o molti occhi) – è amplificata, infine, dalla loro stessa natura
di esseri costituiti di ruah, una
sostanza reale, sebbene aeriforne e volatile, come il soffio, il vento, la
nube e il fuoco ove109
le epifanie angeliche, ad es., esalando, possono sparire, rapide e inattese
come lo sono state le loro improvvise irruzioni. Solo esseri simili possono
affrontare Satana che è il Principe delle potenze dell'aria, quello spirito
che opera nelle cose, nei corpi e nelle menti degli uomini ribelli110.
Così, intelligenza superiore, volontà inflessibile, potenza di difesa e di
offesa, morale e fisica, assolutamente abnorme, velocità di trasporto nello
spazio talmente elevata da rasentare la simultaneità111,
fluidità, invasività e pervasività senza limiti a carico di uomini e di cose,
in modo da determinare e sostenere idee, volontà, passioni, azioni, oppure
scatenare o placare forze naturali, inerti o furibonde, vengono attribuite,
senz'altro, a questi esseri che, se non sono, addirittura, facoltà, qualità
o azioni entificate dello stesso Signore, sono comunque "figli di Dio"
e la loro presenza attiva, sempre invocata e sempre affascinante e terrifica112,
sui campi di battaglia è intesa, ovviamente, come risolutiva per la vittoria
dei giusti e la sconfitta dei malvagi.
§ 8.
Eventi storici ed eventi mitici
Gli eventi degli
universi mitico-rituali, sebbene coinvolgano uomini e cose, non sono da intendere,
ora, senza stravolgerne totalmente il senso, come meri "fatti storici",
cioè come accadimenti che si svolgono lungo "la freccia" del tempo,
cioè gli uni dopo gli altri, gli uni diversi dagli altri. Nel tempo irreversibile
solo il presente è reale, mentre ciò che è accaduto e ciò che accadrà possono
esistere solo idealmente, cioè nel vissuto del ricordo e dell'attesa. Un evento
mitico è, invece, tale proprio perché, una volta rivelato che è accaduto o
che accadrà, non si conserva solo idealmente nella coscienza del ricordo o
dell'attesa o si mantiene come vuoto modello ermeneutico o come mero paradigma
ideale di comportamento per le comunità umane, ma si ripete realmente, cioè
sempre "in carne ed ossa", «ora come allora e ora come sarà», sia
spontaneamente per una volontà manifestatrice della potenza, sia per induzione
rituale da parte umana113.
Come già notato, nel contesto mitico-rituale giudaico-cristiano non è difficile
rilevare come la lotta vittoriosa cosmogonica degli inizi (Urzeit) da parte di Yahweh contro il Caos acqueo e l'annientamento
totale sancito negli oracoli delle Apocalissi (Endzeit) costituisca il mitologhema originario che si ripete realmente
in ogni evento bellico in funzione salvifica – sia esso invocato o no – in
tutti gli scontri del popolo eletto da Dio, come, ad es., nel passaggio del
Mare dei Giunchi (Mar Rosso) o nel transito del Giordano, mentre il tumulto
delle nazioni, degli accampamenti e degli eserciti nemici in marcia, è puntualmente
identificato nella Bibbia, e non certo metaforicamente114,
con il fragore delle "grandi acque". L'Altissimo e i Suoi Angeli
piombano, di certo, sulla terra «con mano forte e braccio teso», in soccorso
degli uomini giusti e delle loro cose in pericolo, ma il tempo dell'umana
condizione profana negli universi mitico-rituali non va frainteso ellenicamente115,
secondo una lezione usuale, come tempo irreversibile, cioè storico, in cui
può «irrompere misteriosamente e incomprensibilmente l'Eterno», ma anch'esso
come tempo reversibile, cioè mitico.
Lo
stato profano dell'uomo e del mondo è, come si è visto, segnato da sempre
da una essenziale e generale impotenza esistenziale. Tale condizione è rivelata,
come già notato, dalla presenza tenebrosa, occhiuta e insonne delle ierofanie
maligne nella vita umana e cosmica, ed esse hanno il volto di tutte le molteplici
e multiformi sventure, piccole e grandi, che aggrediscono da sempre ogni esistenza.
Tali eventi, allora, non vanno assunti e vissuti come fatti che si dipanano
in un tempo storico e irreversibile, ma come mere ripetizioni di un contrasto
e di una resistenza delle forze del Caos originario nei confronti delle potenze
benefiche creatrici, rivelati nel mitologhema cosmogonico degli inizi e della
fine dei tempi. Miticamente, quindi, non ci sono molte e diverse guerre avvicendantisi
nel tempo della storia, nemmeno dal punto di vista di un uomo, se egli appartiene
ad una cultura premoderna, ma un'unica, identica guerra116,
suscitata dal gesto benefico e creatore di Dio, sebbene violento, che, pur
iniziatasi vittoriosamente, è tuttora in corso, e che si concluderà solo con
la distruzione finale del Male e la glorificazione della Gerusalemme del popolo
eletto e della Chiesa dei beati (secondo le Apocalissi giudaiche e cristiane).
§ 9.
Il settimo giorno, dopo il riposo
Se si accetta
la tesi del conflitto cosmogonico di Yahweh con il Caos acqueo, lo scontro
campale della fine dei tempi avrebbe, allora, un unico possibile senso, quello
dell'epilogo di questa guerra mitica precosmica che, in quanto tale, non ha
e non può avere significato storico alcuno, sebbene l'intero cosmo umano e
divino vengano totalmente coinvolti in essa e vengano intesi in base ad essa.
In verità, fin dai «tempi antichi il Signore ha fissato il giorno della grande
battaglia»117. Così, se da
una parte tutte le guerre di Israele e della Cristianità premoderna, come
si è visto, dato l'intervento delle potenze sacrali, hanno sempre risonanza
e portata cosmiche indubitabili e sono, in definitiva, delle micro-apocalissi,118
dall'altra, la fine del mondo sarà preceduta da una guerra cosmica totale
che, sebbene, forse, originata in tempi e luoghi ove l'uomo ancora non c'era,
coinvolgerà, certo, l'umanità e le terre da essa abitata119.
Una
guerra mitica qualunque, quindi, con l'opulento e rutilante apparato figurativo
catastrofico di sempre120,
ma questa volta tutto questo appare ingigantirsi a dismisura121,
perché lo scontro escatologico sarà autenticamente totale e definitivo. Comunque,
l'Apocalisse dovrebbe realizzare finalmente quel sogno – occulta radice dell'ostinato
istinto bellico – invano accarezzato sempre dai cuori dei guerrieri, quello
della distruzione definitiva del Male122
in tutto il mondo – originario o no che esso sia – e in tutti i suoi molteplici
aspetti. Dovrebbero avvenire, allora, con il ritorno del Messia sulla terra,
la glorificazione dei giusti che risorgeranno a nuova ed eterna vita, trionfando
sul male e, quindi, sulla Morte123,
il castigo senza appello dei malvagi124,
il dilatarsi125 nel cosmo del
dominio dei giusti e dei beati (il trionfo di Gerusalemme – con la restaurazione
del regno di Davide126
– e della Chiesa di Cristo), la pace perpetua127
e l'avvento di nuovi cieli e di nuove terre128.
Questi vanno intesi miticamente, cioè in senso realistico e non in quello
spirituale e trascendente129
e cioè non molto diversi dai cieli e dalle terre di oggi130,
sebbene mondati per sempre dal male131.
In definitiva, con l'Apocalisse, che conduce alla perfezione un universo nato
o divenuto imperfetto, si conclude, di fatto, il lavoro cosmogonico di Dio
con l'aggiunta di un "settimo giorno", non meno faticoso e creativo
dei precedenti. L'evento apocalittico è, in definitiva, ciò che Dio "farà
il settimo giorno", compiendo conclusivamente la Sua Creazione.
Il giorno dell'ira,
quello della "mietitura",132
il giorno rovente come un forno133,
tenebroso per nube e caligine134,
piomberà improvviso «come un ladro nella notte»135
al suono delle trombe angeliche136, non diverso da quello lanciato dalle
sentinelle che, allertando gli eserciti accampati, intimano ai guerrieri di
adunarsi in fretta per il combattimento. Il Signore, circondato dalle "mietitrici"
armate angeliche137,
dovrà uscire ancora, per l'ultima volta, «con mano forte e braccio teso» contro
i nemici di Israele e contro gli avversari di Cristo, schieratisi su di un
campo grande quanto il mondo138,
perché essi, nella pienezza dei tempi (cioè con l'avvento dell'Anticristo)
hanno raggiunto una potenza ed una estensione tali da mettere a repentaglio,
ormai, la vita dell'uomo e del cosmo, cioè
la Creazione stessa. Ma il destino vittorioso è scontato139
perché esso è già presente "in carne ed ossa" nella rivelazione
oracolare.
La
figura solare e aggressiva del Cristo che nell'Apocalisse appare a Giovanni
in estasi – occhi fiammeggianti, piedi simili al bronzo lucente, spada a doppio
taglio emergente dalla bocca, voce simile al «fragore di grandi acque» – non
lascia dubbio alcuno sull'imminenza dello scontro escatologico140.
In mezzo e intorno al trono dell'Altissimo, circonfuso di lampi, tuoni e voci,
quattro esseri simili ai Cherubini di Ezechiele141,
con l'aspetto di leone, di vitello, di uomo e di aquila volante, cosparsi
di occhi davanti e di dietro e muniti di sei ali, occhiute anch'esse, inneggiano
all'Onnipotente, seguiti, poi, dai cori «di miriadi di miriadi di angeli»142
in lode dell'Agnello, come i guerrieri sogliono esaltare con grida i loro
capi per esaltarsi a vicenda alla vigilia di ogni grave scontro.143
L'apertura
dei sette sigilli ad opera di Cristo, che stringe nelle mani il rotolo degli
eventi finali decretati da Dio, ritma la sequenza incalzante dei disastri
umani e cosmici che precedono sinistramente la fine dei tempi, cioè, invasioni,
guerre, carestie, pestilenze, morti, terremoti, sole nero, luna rossa, caduta
di astri e l'accartocciarsi della volta del cielo. I quattro angeli, che comandano
dai quadranti del mondo i venti devastatori, attendono immobili, prima di
abbattersi sulla terra e dare inizio alla strage, che venga impresso sulla
fronte di tutti i servi di Dio il segno del loro riconoscimento di uomini
giusti144.
All'apertura del settimo sigillo verranno date agli angeli sette trombe che
essi inizieranno a suonare una dopo l'altra, provocando disastri sulla terra
di origine meteorica e, soprattutto, astrale145,
e solo dopo lo squillo della settima tromba si compirà il mistero di Dio,
secondo le profezie146.
Un angelo decaduto, al suono della quinta tromba, aprirà il pozzo dell'Abisso
dal quale, come da una fornace, esaleranno, insieme ad un fumo tanto denso
da oscurare il sole, sciami di mostruose cavallette dal ventre corazzato che,
simili a cavalli da battaglia catafratti, ma con volto e capelli umani, con
zanne leonine e con code di scorpione, muoveranno all'assalto dei malvagi
con le loro ali rombanti come carri da guerra trainati da molti cavalli lanciati
al galoppo147. Lo squillo
della sesta tromba slegherà i quattro angeli incatenati del fiume Eufrate
e duecento milioni di cavalieri corazzati di fuoco, di giacinto e di zolfo,
che montano cavalli dalla testa leonina e dalle code ofidiche, vomitanti fuoco,
fumo e zolfo, stermineranno un terzo dell'umanità148.
Il
settimo squillo di tromba schiuderà il Santuario celeste di Dio e l'Arca dell'Alleanza
apparirà nel varco dei cieli, accompagnata dagli sconvolgimenti meteorici
e ctoni, tradizionalmente sempre collegati alle grandi ierofanie celesti.
L'esibizione del massimo della cratofania sacrale è, di fatto, l'inizio dello
scontro. In cielo una Donna incinta del Messia, vestita di sole, coronata
con dodici stelle e con la luna sotto i suoi piedi, verrà assalita – nel vano
tentativo di divorare il figlio appena nato – da un enorme drago rosso dalle
sette teste e dalle dieci corna, la cui coda rovinerà giù sulla terra un terzo
delle stelle del cielo149. Michele e
le sue legioni piomberanno in forze su di lui e sui suoi accoliti e «il grande
Drago, il Serpente antico, colui che chiamiamo diavolo e satana sarà precipitato
sulla terra» ancora vivente e furente «perché gli resterà poco tempo»150. E Satana,
a conferma della sua primordiale matrice acquea, dopo aver tentato di affogare
la Donna – che si invola verso il deserto con due ali d'aquila – vomitando
su di Lei un fiume d'acqua, si ferma infine in riva al mare per conferire
alla Bestia emergente dalle acque – un pauroso mostro con dieci corna e sette
teste, simile ad una pantera, ma con zampe d'orso e con bocca leonina – la
forza, il trono e la potestà per dominare sui potenti della terra, per guerreggiare
contro i santi e, infine, per vincerli.151
Ad
apparizioni angeliche che annunziano l'ora del giudizio e ad altre che mietono
e vendemmiano le nazioni, perché la maturazione dei tempi è ormai giunta,
si avvicendano sulla scena apocalittica, uscendo dal Tempio che contiene la
Tenda della Testimonianza, fumante per la presenza della Gloria di Dio,
sette Angeli muniti di sette coppe, colme dell'ira divina, che essi
dovranno rovesciare sulla terra, sul mare, sulle acque, sul sole, sul trono
della Bestia, sull'Eufrate e in aria152,
causando rovine immani come non mai. Ma dalla bocca del drago e della bestia
usciranno, sotto l'aspetto di rana, tre spiriti immondi che, facendo prodigi,
andranno a radunare tutti i re di tutta la terra, quelli che nel gran giorno
di Dio si scontreranno sulla piana fatale di Armaghedòn153.
Cristo con corona ed occhi fiammeggianti scenderà
in campo per la prima volta, montando un cavallo bianco, seguito dagli eserciti
celesti, anch'essi su cavalli bianchi e vestiti di lino candido e puro. Mentre
un Angelo, ritto sul sole, urlerà agli uccelli che volano in mezzo al cielo
di radunarsi per cibarsi a sazietà delle carni dei caduti nella imminente
carneficina, re, eroi, capitani, cavalieri e cavalli154,
la Bestia e i re della terra con i loro eserciti si scontreranno con le schiere
dell'Altissimo e dopo l'eccidio totale dei suoi sventurati accoliti, trafitti
dalla spada a doppio taglio che si protende dalla bocca del Verbo, la Bestia
e il falso profeta verranno catturati e gettati nello stagno di fuoco e di
zolfo155.
Un Angelo scenderà, poi, dal cielo con le chiavi dell'Abisso ed con una grande
catena, per rinchiudervi dietro una porta sigillata e in catene per la durata
di mille anni "il Serpente antico" che non aveva partecipato al
primo scontro con Cristo e i Suoi Angeli156.
Dopo la sua liberazione Satana radunerà, per l'ultima volta, dai quattro angoli
della terra, tutte le nazioni nemiche del popolo di Dio, che marceranno dilagando
sull'intera superficie terrestre e, sebbene all'assedio di Gerusalemme e dell'accampamento
dei santi gli eserciti guidati dal Dragone saranno numerosi come la sabbia
del mare, essi verranno inceneriti
da un fuoco piombato su di loro dal cielo157.
La guerra escatologica si concluderà, quindi, con la desacralizzazione del
Male che, da cratofanico che era, perché sacro, diverrà del tutto impotente:
nello stagno di fuoco e di zolfo, Satana, la Morte e gli Inferi stessi andranno
a fare compagnia, per i secoli dei secoli, alla Bestia e al falso profeta
che li avevano preceduti158.
Così, su una
terra talmente purificata dal lutto, dal lamento e dall'affanno, da non rinvenirvi
più nemmeno il relitto più imponente della loro arcana e remota matrice caotica
primigenia, cioè il mare159,
illuminata senza posa non più dal sole o dalla luna, ma dalla gloria di Dio
e dell'Agnello che hanno fugato ogni tenebra, discenderà dal cielo la Gerusalemme
santificata dove Dio e Cristo abiteranno con i giusti che potranno finalmente
guardare il volto del Signore senza morire. Una città reale, comunque, squadrata
a regola d'arte, costruita con metalli nobili, pietre preziose e perle, cinta,
ancora, da alte mura guarnite di dodici porte, vigilate da dodici angeli,
e con al centro della piazza della città l'albero della vita i cui frutti
di dodici raccolti l'anno sfameranno tutti160.
«Il mondo intero e il paradiso diventeranno una cosa sola»161
e la guerra, solo allora, scomparirà del tutto e dovunque, perché essa non
avrà ormai più senso alcuno. Ma questa pace eterna, sempre bramata dagli uomini,
sfocerà, tuttavia, solo da una guerra paradigmatica vittoriosa.162
§ 10.
Epilogo
Le ragioni dell'enigmatico163
istinto bellico, individuate dalle presenti analisi fenomenologiche, appartengono
indubbiamente ai vissuti etnici di un vasto mondo di culture mediterranee
a base mitico-rituale, ad un mondo, cioè, che, oggi, può dirsi anche "semanticamente"
tramontato e divenutoci alieno. Imponenti analisi storiche, antropologiche,
filosofiche e teologiche, ciascuna dal proprio punto di vista metodologico
e proiettando principi, credenze e concetti che la cultura della modernità
ci ha copiosamente elargito, hanno da tempo affrontato e affrontano ancora
oggi le stravaganze, sempre più indigeribili, delle culture vissute o viventi
in spazi e tempi alieni, intenti solo a fabbricarsi – di norma inconsapevolmente
– una immagine degli altri che sia il meno stridente possibile con le nostre
usuali convinzioni attuali e non già a raccogliere le ragioni degli altri
così come effettivamente esse sono o sono state. De
re nostra agitur, insomma.
Non
ritengo che la ricerca nel dominio specifico delle scienze cosiddette umane
possa più essere soddisfatta né da simili metodi di indagine proiettiva, oltremodo
riduttivi e manipolatori del senso proprio che abita intrinsecamente i dati
di culture lontane da noi, né, ancor meno, da certi noti espedienti "partecipativi",
mediante i quali il ricercatore, trasformatosi in indigeno, prova ad aderire
simpateticamente alle fedi e alle credenze delle etnie da studiare, convinto
di poterle conoscere più adeguatamente "dall'interno". Ho cercato
di mostrare come un approccio fenomenologico all'alterità culturale, adeguatamente
assestato e calibrato analiticamente, possa aprire una feconda via d'uscita
dal labirinto di queste intricate aporie metodologiche ed epistemologiche.
L'individuazione della intenzionalità bellica
come lotta radicale e definitiva al male, ottenuta analizzando contesti culturali
a base mitico-rituale, non deve indurre alla frettolosa conclusione che tale
identificazione debba valere esclusivamente per gli universi a fondamento
sacrale. Si può, tuttavia, affermare che solo in simili contesti culturali
e non in altri questa identificazione è, in effetti, chiaramente emersa allo
sguardo fenomenologico e, sebbene manchino adeguate analisi in proposito,
è possibile supporre che ciò sia dovuto al fatto che, essendo le strutture
sacrali le compagini di senso più elementari ed originarie che le comunità
umane hanno elaborato per capire il mondo e per sopravvivere in esso, il loro
radicamento nel vissuto di impotenza, generatore di impulsi bellici, è, ovviamente,
diretto ed immediato.
Se,
poi, il vissuto della lotta radicale contro il male fosse effettivamente tutt'uno
con il vissuto originario della condizione biologicamente impotente di Homo164,
come fenomenologicamente è apparso, tale vissuto, indipendentemente dal senso
sacrale o secolarizzato che le culture possono conferirgli, continuerà allora
ad alimentare i nostri attuali impulsi alla guerra. E, in tal caso, essa sarebbe
difficilmente estirpabile dalle comunità umane.
Domenico
Antonino Conci
[1] Raccolgo tale informazione
dalla pubblicazione, relativa alla visita papale, di A. TROIANO, L'Arcangelo guerriero. San Michele e il "culto speciale" del Papa e della
Chiesa, [S.l.], 1989; p. 16.
[2] È noto che nel Sanctus la formula rituale "Signore
degli Eserciti" è stata sostituita con l'espressione "Signore
dell'Universo".
[3] A. TROIANO, op. cit., pp. 69 e ss.
[4] Ibid., p.15. Sull'attualità
della lotta contro la presenza infestatrice di Satana si era già pronunziato,
del resto, Paolo VI in una omelia del 29 giugno 1972, in occasione della
festività dei SS. Pietro e Paolo e del IX anniversario della Sua incoronazione.
L'attuale Pontefice ha, poi, ripreso, ritornandovi più volte, il misterioso
tema diabolico in alcune Sue importanti omelie. Tale pensiero fu riportato
sulle pagine de L'Osservatore Romano
del 14, 16, 17 e 21 agosto 1986, suscitando le inevitabili polemiche della
stampa "liberale" e degli intellettuali "moderni" (cfr., ad es., A. M. DI NOLA, Il diavolo. Le forme, la storia, le vicende
di Satana e la sua universale e malefica presenza presso tutti i popoli
dall'antichità ai nostri giorni, Newton Compton, Roma 1987, pp. 355
e ss.).
[5] Gli originari luoghi
di culto dell'Arcangelo guerriero sono rinvenibili, prima che Costantinopoli
annoverasse complessivamente ben ventiquattro chiese consacrate a S. Michele,
nelle Chiese copte d'Egitto e in Frigia, ove, diversamente dalla iconografia
occidentale, non sembra sia stato rappresentato mentre abbatte il dragone,
secondo una lezione ispirata direttamente e letteralmente dalle visioni
apocalittiche di Giovanni (cfr. M. BAUDOT, «Origine du culte de Saint Michel», in Millénaire
monastique du Mont-Saint-Michel, vol. III, P. Lethielleux, Parigi, 1993,
p. 19). Il Liber pontificalis
colloca l'assenso di papa Gelasio I alla consacrazione del Santuario garganico
intorno al 493. I Longobardi diffusero, poi, il culto micaelitico a Pavia
e a Milano.
[6] Come sarà chiarito
progressivamente nel testo, l'espressione qui usata "mitico-rituale" allude significativamente e ampiamente a contenuti
rivelativi relati a segni multiformi (immagini, parole, orali o scritte,
gesti, azioni, etc.) attribuiti alla volontà di figure potenti, cioè sacrali
(mito), che vengono scrupolosamente
riattivate (rito) a fini salvifici
da parte dei singoli e delle comunità a base mitico-rituale. Va, quindi,
precisato che, seguendo tale prospettiva, il termine "rivelazione"
non è da intendere e da impiegare come qualcosa di esclusivo del Vecchio
e del Nuovo Testamento, ma va assunta come l'indole generale del fondamento
di qualunque credenza religiosa e di qualunque attività rituale in generale.
Cfr. più oltre.
[7] Si racconta come nel
492 la città di Siponto, assediata dai soldati di Odoacre, fu salvata da
S. Michele che intervenne, rispondendo con manifestazioni uraniche e telluriche
alle invocazioni di soccorso del Vescovo (JACOPO da VARAZZE, Legenda aurea, CXLV, S. Michele Arcangelo, 2.1). Così, il Protettore
di Israele e di Bisanzio dava inizio ufficiale ad una imponente attività
militare in Occidente. L'abbandono dell'assedio di Benevento ad opera dell'imperatore
bizantino Costante e i successivi scontri vittoriosi del duca longobardo
Romualdo furono attribuiti senz'altro «al braccio militare di Dio e della
Vergine», cioè a S. Michele. Ma Paolo Diacono, che nella sua Historia Langobardorum riferisce pure l'invasione
dell'Italia da parte di Costante (V, 6 e ss.), non ne parla. Tuttavia, nello
scontro tra Alachi e Cuniberto, riportato da Paolo, quest'ultimo vince perché
porta sugli stendardi da battaglia l'immagine di S. Michele (V, 41). In
realtà, a conferma dell'indubbio prestigio politico del sito garganico,
intorno al 650 i Longobardi di Grimoaldo difesero dai Bizantini quel Santuario
che questi ultimi avevano precedentemente fondato e che successivamente,
cioè nel X e nel XI secolo, avrebbero ostinatamente riconquistato, rioccupando
l'intero promontorio garganico.
Il Sacramentarium di Papa Gelasio I con le sue Orationes e Missae tempore belli
e con la Missa pro regibus invoca
senz'altro l'intervento divino per conseguire la vittoria sul campo di battaglia
e nel VIII secolo compaiono le preghiere speciali per la benedizione del
vessillo da battaglia e quelle solenni per la vittoria. Nel 932 un Concilio,
riunito ad Erfurt, avrebbe successivamente limitato le celebrazioni delle messe dedicate a S. Michele per le
vittorie belliche (cfr. F. CARDINI,
Alle radici della cavalleria militare,
La Nuova Italia, Firenze 1987, p. 307) e la forza militare, comunque, non
venne mai sottoposta dalla Chiesa ad una investitura sacramentale vera e
propria (M. KEEN, La cavalleria,
a cura di F. Cardini, tr. di F. De Giovanni, Guida, Napoli 1986, p. 142
). Il vessillo che il re germanico Enrico l'Uccellatore ed Ottone I portarono
devotamente contro gli Ungari – identificati, senz'altro, col dragone infernale
– il 10 agosto del 955 recava l'immagine di S. Michele e la vittoria sulla
Lech fu attribuita a Lui (cioè alla Sua presenza come Santa Icona). Una
tradizione popolare vuole che sul parapetto della loggia dell'Abbazia della
cittadella medioevale Terra Murata di Procida venisse collocata, contro
gli sbarchi saraceni, la statua d'argento di S. Michele, per riattivare
una precedente sua ierofania nei cieli dell'isola, tra tuoni e lampi, contro
un attacco di barbareschi. Nel 1425 L'Arcangelo, insieme ad altre figure
potenti, visita più volte Giovanna d'Arco a Domrémy e non è certo casuale
l'ingresso trionfale della Vergine guerriera ad Orleans proprio l'8 di maggio,
giorno celebrativo di S. Michele. Alla battaglia di Hastings, il Conte Roberto
di Mortain inalbera uno stendardo con l'effigie di S. Michele. Alfonso Enrico
di Portogallo, fondatore dell'Ordine di S. Michele, mentre lotta contro
i Mori per riconquistare lo stendardo catturato dai nemici, viene soccorso
da un braccio alato, privo di corpo, che si protende dall'alto, proteggendo il Re che combatteva pericolosamente
appiedato. Dopo la vittoria, i prigionieri Mori confermarono l'apparizione
celeste. E agli inizi del XVII sec., S. Michele, approdato con gli Spagnoli
nelle Americhe, appare ad un giovane indigeno messicano in un sito non lontano
da Mexico City (S. Miguel del Milagro).
[8] In tutte le culture
a fondamento mitico-rituale vi sono luoghi e tempi privilegiati in cui,
per un'arcana destinazione, le etnie ritengono di poter incontrare il Sacro,
onde invocarlo e averlo presente, così, più da vicino. Sono, questi, i templi
e le feste. In linea generale il tempio fissa il luogo dell'apparizione
potente e la festa rinnova il momento in cui per la prima volta la ierofania
salvifica ha avuto luogo. Nel nostro caso, ad es., il Santuario del Gargano
determinerà paradigmaticamente spazi e tempi di azioni devozionali volte
a fondare e a rinnovare incontri protettivi con il potente Arcangelo. Ma
non è sempre così. Dal 950 al 1050, infatti, sorgono in Europa luogo di
culto importanti in onore dell'Arcangelo, anche se in essi S. Michele non
è mai apparso, a causa, sembra, di un manifesto e diffuso interesse per
l'Apocalisse di Giovanni (D. KECK, Angels and Angelology in the Middle Ages,
Oxford Univ. Press, New York, 1998, p. 45). In generale il culto micaelitico
occidentale predilige, sebbene non in modi esclusivi, alloggiamenti in luoghi
rupestri, aerei e ctonii, come alture, colline, grotte, costoni marini e
presso corsi d'acqua o foreste impenetrabili, per un evidente ritualismo
ripetitivo dell'archetipo garganico (cfr. J. FOURNEE, «L'Archange de la mort e du jugement», in Millénaire monastique, op. cit., p. 90). Oltre al celeberrimo Santuario
normanno di Mont Saint-Michel, vanno ricordati quello edificato, con il
titolo mimetico "Monte Gargano", su di una collina dominante la
città normanna di Rouen, scomparso con la Rivoluzione (cfr. A. FOURE, «La
Prieuré Saint Michel au Monte Sainte-Catherine près Rouen», in Millénaire monastique,
op. cit., pp. 309 e ss.); la Sagra di S. Michele, tempio edificato in Piemonte
sul monte Pirchiriano tra Torino e Susa (cfr. A. PETRUCCI, «Origine e diffusione
del culto di S. Michele nell'Italia medievale», in Millénaire monastique, op. cit., p.348) e, in Italia, altre spelonche
micaeliche meridionali, nate su imitazione garganica, come quella di Civitella
del Tronto (ibid., p. 348) e quella
di Olevano sul Tusciano, a nord di Eboli (ibid., p. 344). La tradizione
popolare vuole che in Abruzzo vi siano molte altre caverne dedicate a S.
Michele ed è nota quella di Balsorano, ove l'Arcangelo sarebbe apparso,
e un cui cunicolo sboccherebbe addirittura sul Gargano stesso (G. PANSA,
Miti, leggende e superstizioni dell'Abruzzo,
Studi comparati, Parte I, Forni, Bologna , 1970 [rist. an. dell'ediz
di Sulmona 1924], pp. 84 e ss.).
[9] L'uso dei metodi e
delle categorie della filosofia greca (la cosiddetta sapienza dei Gentili) per
la comprensione e per la sistemazione dei contenuti rivelativi cristiani,
che avrebbe raggiunto l'apogeo e una relativa solidità d'impianto con la
Scolastica del XIII secolo, con l'impiego massiccio del pensiero neoplatonico
ed aristotelico, non fu senza risoluti contrasti fin dai primi secoli dell'Era
cristiana. Il vescovo Athanasio di Alessandria, ad esempio, nella sua celebre
Vita di Antonio, da lui scritta dopo la
morte del Santo, avvenuta nel 356, riporta un dibattito tra Antonio e alcuni
filosofi pagani, ove, lucidamente, emerge l'insostenibilità della tesi che
l'esistenza e, quindi, l'adorazione di Dio, possano fondarsi sulla ragione
dimostrativa (lògos apodeiktikòs)
e non sull'adesione obbediente (pìstis)
ai fatti rivelativi (pràgmata)
(Vita di
Antonio 77, 2-3). Sebbene
simili argomenti non possono essere affrontati adeguatamente in questa sede,
va tuttavia segnalato che, stando ai risultati dell'analisi fenomenologica,
l'impiego occidentale del logos
greco per la comprensione razionale dei dati rivelativi ha sfigurato questi
in qualcosa di assolutamente altro, cioè in dati d'esperienza.
[10] Nella prospettiva fenomenologica
le culture cosiddette popolari presentano, di norma, un fondamento genetico
essenzialmente rivelativo e sono realistiche e politeistiche.
Gli angeli dei "rustici" amano, come è noto, frequentare personalmente
i loro devoti che li invocano frequentemente per scopi che la Chiesa qualifica
come "superstiziosi", e sembrano, inoltre, agire in piena autonomia
rispetto al Signore.
[11] Il metodo di analisi
qui impiegato è quello di una antropologia ispirata ad un metodo fenomenologico
riformato rispetto alla lezione ortodossa, cioè husserliana. Sebbene sia
del tutto fuori luogo addentrarsi nell'intrico dei dettagli tecnici di tale
analisi, va precisato che per il fenomenologo è del tutto ininfluente il
problema della verità o della falsità dei dati rivelativi, di cui egli analizza
le strutture di senso così come esse contestualmente si manifestano. In
definitiva, il fenomenologo radicale deve attenersi solo e sempre ai concreti
vissuti dei contenuti rivelativi, in quanto tali, evitando quelle fatali
manipolazioni che inevitabilmente sopraggiungono quando sensi propri vengono
proiettati sui dati dei sensi altrui, mescolandosi con essi inestricabilmente.
Più avanti, nel testo, si chiarirà che l'attributo "rivelativo"
va riferito ampiamente e in prima istanza a
qualsiasi contenuto manifestativo acquisito da una coscienza in postura
rivelativa e non esclusivamente alle manifestazioni potenti, cioè alle ierofanie
in senso stretto.
[12] Il riconoscimento della
specifica razionalità del Sacro, che regola il pensiero e la vita degli
universi mitico-rituali, è oggi, a mio avviso, una delle conquiste più rilevanti
di quelle analisi antropologiche e fenomenologiche della religione che hanno
inteso liquidare le usuali credenze nella natura alogica, prelogica e, quindi,
irrazionale delle culture a fondamento sacrale. Il riconoscimento dell'esistenza
paritetica di molti lògoi che
obbediscono, sovente, a leggi reciprocamente altre non rappresenta solo
un significativo contributo al progresso degli studi del Sacro, ma la fine
del peggiore, forse, dei costumi etnocentrici, quello di negare alle culture
aliene proprio quella razionalità che distingue, di norma, l'essere umano
in quanto tale.
[13] È altamente probabile
che tale crisi antropologica si sia prodotta nel bacino del Mediterraneo
antico orientale durante il periodo oscuro del cosiddetto "Medioevo
ellenico" e all'indomani della caduta di cogenza dell'universo rivelativo,
cioè di quello mitico-rituale, che aveva dominato, fino allora incontrastato,
sul nostro pianeta da decine di millenni. Tale collasso antropologico è
databile probabilmente agli inizi del I millennio (Età del ferro).
[14] Con l'espressione "pensiero
vuoto" la fenomenologia intende un tipo di logos – quello occidentale – che per costituirsi e funzionare non
ha bisogno di essere riempito di contenuto alcuno ed è, quindi, costitutivamente
"privo di hyle" (materia).
Se, del resto, dovesse dipendere da materiali intuitivi specifici, esso
sarebbe privo di quella eminente facoltà relazionale pura che gli permette
di costituirsi come una protesi integrativa di ogni deficienza attestativa
propria dei fenomeni. Dispiegando, così, mediante la sua attività relazionale,
una indiscussa potenza cognitiva ed operativa, il nostro logos
culmina, come è noto, nell'impresa scientifica e tecnologica.
[15] Ritengo che la prima
testimonianza archeologica di tale logos
inaudito – puramente relazionale e, quindi, vuoto – vada riconosciuta nello
stile cosiddetto "protogeometrico" della ceramica greca arcaica
(900-800 a.C.).
[16] Ho usato in altri testi
l'espressione "realismo segnico" per qualificare, unificandole
in modo compendiario, molteplici forme di indistinzione concettuale, che
presuppongono tutte quella antropologicamente fondamentale tra apparire
ed essere. Accludo, così, anche quella tra l'universo dei segni e l'universo
degli enti di riferimento, tra l'idea e la cosa, tra lo spirituale e il
corporeo, tra il sogno e il contenuto del sogno, etc.
[17] L'inadeguatezza e la
problematicità intrinseche della manifestazione fenomenica, infatti, impongono
la richiesta ineludibile della distinzione tra ciò che è reale e ciò che
non lo è. E questa domanda è soddisfacibile solo sulla base di ipotesi e
di prove di controllo altamente complesse. L'esistenza, beninteso, deve
essere sempre "data" alla coscienza, o mediante una rivelazione
o mediante l'esperienza, ma, a differenza della esistenza rivelata, quella
esperita o fenomenica è, sempre, ambigua e malsicura. Le teorie scientifiche
"corroborate" dal felice superamento delle prove di controllo
ritengono di poter formulare asserti di esistenza in cui questa, essendo stata emendata, in una certa misura,
dalle ambiguità fenomeniche di partenza, è qualificabile come "oggettiva". Si può, così, affermare,
forzando un pò i termini, che in Occidente è l'oggettività scientifica e
non la manifestazione, in quanto tale, a dare l'esistenza. È, pertanto,
del tutto fuori luogo "controllare" i dati rivelativi mediante
le stesse procedure (logiche o sperimentali) impiegate usualmente dalle
scienze, perché i dati rivelativi non sono dati fenomenici, cioè d'esperienza.
L'autenticità di un dato rivelativo non è per nulla cosa ovvia o pacifica,
ma è solo funzione del consenso della comunità e della sua tradizione religiosa
culturale. Pertanto, ogni ambiguità rivelativa
– a differenza di quella fenomenica che esige una vera e propria
metàbasis logica e matematica per poter essere superata, in quanto intrinseca
al fenomeno stesso – è essenzialmente estrinseca al contenuto rivelativo
e l'appello alla comunità e alla tradizione significa che i contrasti e
le lacune dei dati rivelativi si appianano e si integrano, quando è possibile,
sempre ed esclusivamente mediante ulteriori manifestazioni realistiche,
cioè utilizzando principi e strumenti interni all'orizzonte rivelativo stesso
e non protesi vuote.
[18] È, forse, uno dei pregiudizi
più ostinati della cultura occidentale la convinzione che «coscienza» e
«io» siano sinonimi e che, quindi, la negazione dell'io comporti eo ipso la negazione della coscienza.
[19] Nella cultura scientifica
occidentale questo stato di coscienza è classificato senz'altro fra le psicopatologie,
in particolare tra quelle più gravi, costituite dall'indebolimento e dalla
frantumazione dell'Io.
[20] La cultura occidentale
egemone si fonda, eminentemente, sulla postura proiettiva
di una coscienza personale, centrata in se stessa, ritenendo necessario
ed ovvio – di fronte all'inadeguatezza essenziale dei fenomeni – che, per
conoscere il mondo e per agire su di esso, l'uomo debba proiettare sui dati d'esperienza "vuote"
strutture di senso (logiche e matematiche), escogitate come modelli relazionali
e come possibili progetti ingegneristici, trasformando così i dati in oggettività
cognitive e operative.
[21] Solo muovendo dalle
convinzioni moderne che postulano come ovvia una coscienza personale, centrata
in un io, autonoma e libera, sia pure relativamente, nei confronti di ogni
tipo di "influenza eteronoma", si può ritenere che la coscienza
impersonale, propria delle culture a base mitico-rituale, configuri per
l'uomo una condizione di schiavitù o di minorità intellettuale e morale,
quando non una vera e proprio psicopatologia.
[22] In quanto sacrali,
anche verso le potenze negative – o che possono pur essere Angeli sterminatori
come quello inviato dal Signore in
Esodo 12, 23, quello portatore della peste in 2 Samuele
24, 15-17 o quello della pestilenza di Roma del 590, visto da S. Gregorio
sopra la Mole Adriana nel gesto liberatorio di rinfoderare la spada omicida
– si praticano veri e propri culti, sebbene di carattere unicamente profilattico
e apotropaico. È noto, in tal senso, l'ordine dato dal Signore a Mosè di
fabbricare un serpente di rame e di collocarlo su un'asta per guarire e
difendere il popolo dai morsi dei serpenti del deserto (Numeri 21, 8-9). Un idolo di bronzo sembra sia stato distrutto a Gerusalemme
dal re Ezechia, su esortazione del profeta Isaia. Ierofanie angeliche benigne
e maligne, associate ad eclissi di sole e di luna e ad una pestilenza a
Roma e a Pavia, sono narrate da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, V, 5, opera in
cui i segni ominosi sono continui e copiosi.
[23] Indipendentemente dalla
sacralizzazione del male, va precisato che la riduzione all'unità delle
molteplici nature e cause del male, laddove la modernità distingue nettamente
parlando di male fisico, di male morale, di
male psicologico, di male biologico, di male sociale, di male ambientale,
etc. – con tutte le loro indefinite sottoarticolazioni specialistiche che
queste distinzioni comportano – non deve essere giudicata come il prodotto
dell'infantilismo o del semplicismo culturale di comunità ignoranti o culturalmente
"attardate". Malgrado il rapido moltiplicarsi delle specializzazioni
e lo sviluppo sempre più raffinato delle aggressioni tecnologiche del male
in tutte le sue forme nel mondo odierno, l'uomo, a torto o a ragione, continua
a porsi delle domande totali e assolute – quelle sul senso della esistenza
sua e del mondo, sul senso della presenza del male nell'Universo, sul destino
dell'uomo e del cosmo, etc. – che esigono di necessità risposte altrettanto
totali ed assolute.
[24] Numeri 9, 15 e ss.
[25] Il fetore terribile
e penetrante, emanato da tenebrose presenze, che ristagna nauseabondo anche
dopo la loro scomparsa, è fatto noto (cfr., solo come esempio, Vita di Antonio di ATHANASIO di Alessandria,
63, 1).
[26] Cfr., ad es., Esodo 16, 10; Salmi 104 (103), 3-4; Ezechiele
3, 13; 43, 1-3.
[27] Alquanto misteriosamente,
in Genesi 3, 1, compare «un'astuta
bestia selvatica», il serpente, che irretisce Eva in Genesi 3, 13. In tal modo, creato da Dio
come essere immortale, l'uomo, ingannato «per invidia» dal serpente, si
imbatte nella morte, cioè nel Male, che prima non conosceva (Sapienza 2, 24). Il serpente, d'allora, come Satana, giunse nel Cristianesimo
come un essere menzognero e padre della menzogna (Giovanni 8, 44). Così, nel reticente e
ambiguo testo biblico sembra trasparire qualcosa di rimosso. Da dove viene,
infatti, questa «astuta bestia selvatica», dato che l'intera Creazione è
buona ?
[28] Genesi 3, 24.
[29] Cfr., ad es., Esodo 23, 20-33; Deut. 1, 21; 1, 29-31; 1, 42-43; 7, 21-24; 9, 3; 20, 1-9; 31, 3-8; Giosuè 1, 9; 5, 13-15 (ierofania del capo
degli eserciti del Signore); 8, 1; 10,
10-15 (la grande giornata di Gàbaon); Giudici 2, 1-5; Salmi 35
(34), 1-6.
[30] Genesi 1, 1-3.
[31] Genesi 1, 6 -10.
[32] Nell'Enuma elish, notissima epopea babilonese della Creazione, risalente agli ultimi
secoli del II millennio, le complesse vicissitudini della creazione iniziano
con la nascita dei primi Dei dopo la fine di uno stato caotico primordiale,
costituito, appunto, dalla mescolanza delle acque dolci – Apsu – con quelle
amare – Tiamat. Non diversamente si comporta il dio creatore egiziano Shu
che divincola la dea del cielo Nut dall'abbraccio del dio della terra Geb.
Sebbene non siano potenze precosmiche, anche Urano (Cielo), disteso dovunque
(etanùsthe pànte) su Gaia (Terra) in un
amplesso infinito, non lascia spazio alcuno per la nascita di altri dei
e, quindi, di un mondo articolato di uomini e di cose. Così anche nella
Theogonia di Esiodo – opera influenzata
in generale da pregressi motivi mitici del Vicino Oriente antico – solo
la rottura violenta (qui la castrazione di Urano ad opera di Crono) di una
commistione primordiale rende possibile la nascita di spazi cosmici veri
e propri (vv. 154-182). Il motivo cosmogonico della separazione delle acque
è talmente potente nel suo primigenio significato creativo e salvifico da
essere ritualizzato, ripetendosi per
mimesis nel passaggio miracoloso di Mosè del Mare dei Giunchi, in quello
del Giordano da parte di Giosuè e, ancora, in quello dell'Eufrate da parte
degli esuli dall'Assiria, profetizzato da
Isaia (11, 15-16). Analogamente, si vuole che il pericoloso riflusso
della marea montante di Mont Saint-Michel in Normandia si plachi nel giorno della festa dell'Arcangelo, perché le acque, una volta
ritiratesi, formerebbero biblicamente come due solide muraglie (sed stat iinstar murorum a dextris et a sinistris), attraverso le
quali i pellegrini, diretti all'Abbazia, possono avanzare senza alcun timore,
sicuri di non essere travolti dalle acque (C. LAMY-LASSALLE, «Santuaries
consacrés a Saint Michel en France des origines a la fin du IX Siècle», in Millénaire
monastique, op. cit., p. 119).
Alla separazione cosmogonica
e, quindi, benefica delle acque – il primo gesto creatore del Signore –
si contrappone, dunque, miticamente, il Diluvio distruttivo che riporta
il mondo quasi a quello stato precosmico che è poi quello del Nulla, del
Caos e, quindi, del Male originario.
[33] Giobbe 37, 18.
[34] Non è certo casuale
che Yahweh, per mondare la terra del peccato, abbia scatenato il Diluvio
universale, che altro non è se non il rigurgito dell'originario Caos acqueo,
sia pure parziale e temporaneo, semplicemente aprendo le dighe delle acque
del cielo e di quelle della terra (Genesi
7, 10 -1 ; 8, 2-3). Sembra che Yahweh abbia collocato una sentinella a vigilare
sul «mostro marino» e sui confini del mare (Giobbe
7, 12), imponendo un limite alle acque (Salmi
104 (103), 5-9). Cfr. anche altri luoghi che rivelano l'odio enigmatico,
ostinato e l'agire violento del Signore nei confronti delle acque e dei
loro multiformi accoliti (Giobbe
26, 12-13; 28, 25; 38, 8-11; Salmi
33 (32) , 7 ; 74 (73) 13-14, 17; 77 (76), 17; 89 (88), 10-11; 93 (92), 3-4;
104 (103), 7-9; 107 (106), 23 e ss.; 148, 7; Abacuc
3, 8; Isaia 27, 1; 51, 9-10).
Il terrore umano nei confronti del male e della morte, intesi e vissuti
miticamente come "annegamento", è ampiamente testimoniato nella
Bibbia: cfr. in Salmi 18 (17),
5-20, il celebre Te Deum di Davide,
sollevato dalle grandi acque da una maestosa e terribile epifania salvifica
di Yahweh. Cfr. anche, Salmi 29
(28), 3; 32 (31), 6; 69 (68), 14-16; 93 (92), 3-4;
Samuele 22, 5-20; Siracide
43, 24-25. Del resto, è Yahweh stesso a punire la città nemica con una inondazione
delle grandi acque e questo è, ancora una volta, un segno eloquente, sebbene
indiretto, del dominio mitico del Signore su di esse (Ezechiele 26, 19-20 ). Cfr. anche il celebre Cantico di Giona (Giona 2).
[35] «Sappi che Dio li (cielo
e terra) ha fatti non da cose preesistenti» ( 2 Maccabei 7, 28).
[36] Cfr. DIELS-KRANZ, Parmenides 28, B 7-8.
[37] Trovo eloquente il
palese puntiglio di un passo biblico nel precisare che Yahweh è «il Signore
del cielo e della terra, Creatore
delle acque», perché lascia emergere il problema affrontato nel testo
(Giuditta 9, 12). Ci sarebbero, forse, dei dubbi, a proposito delle
acque ?
[38] Come è noto, la più
antica e celebre guerra cosmogonica è quella narrata nel poema mitologico
babilonese Enuma elish, già citato.
Tratta dello scontro vittorioso tra il giovane dio Marduk – che diventerà,
così, il capo supremo del pantheon babilonese – e la mostruosa Tiamat, Dea
primordiale delle Acque salate, alleata al suo sposo e luogotenente Qingu.
Vi sono poi molti miti bellici che non sono cosmogonici perché narrano lotte
per la conquista del potere su un mondo già creato. Ad es., il dio supremo
ittita del cielo temporalesco – narrata dal sacerdote Killash – si scontra con il serpente o drago divino Illuyankash
in una furibonda guerra dalla quale riuscirà vincitore, uccidendo il mostro
in riva al mare (cfr. G. FURLANI,
La religione degli Ittiti, Zanichelli, Bologna 1936, pp. 87-91). Nei
testi cananei ritrovati a Ras Shamra, il dio Ba'al, il Cavalcatore delle
nubi, deve sostenere una guerra accanita, sebbene vittoriosa grazie al possesso
di armi magiche (mazze) di crescente potenza, contro divinità eversive acquee,
come Yam (Mare) e Tannin e Nahar (Fiume), strappando a Yam la splendida
dea Astarte, da lui rapita. Il mito bellico sembra rinnovarsi con analoga
violenza nella Theogonia di Esiodo, all'indomani della
vittoria riportata da Zeus sui Titani e della conquista del potere,.con
la lotta di Tifeo, un gigantesco mostro, generato da Tartaro e Gaia, contro
lo stesso Zeus. Sulle sue spalle erano innestate «cento teste di serpe,
di terribile drago» (op. cit., vv. 824-825). Rilevanti motivi analogici
collegano questo scontro mitico al precedente mito ittita. Va rilevato,
comunque, che, sebbene tali ultimi scontri mitici non siano propriamente
cosmogonici, tuttavia la lotta per il potere cosmico contro forze eversive
è necessaria per la tutela dell'integrità del mondo, per evitare, cioè,
il rigurgito, sempre possibile, del Caos.
[39] Cfr., per ulteriori
chiarimenti in proposito, D. A. CONCI, «Tempi che salvano. Prove fenomenologiche
generali su modelli alieni di tempo», in Il tempo in questione.
Paradigmi della temporalità nel
pensiero occidentale, a cura di L. Ruggiu, Bruno Mondadori, Milano 1997,
p.207.
[40] È chiaramente ispirata
a tale modello mitico l'immagine profetica che identifica le invasioni nemiche
(ad es. quella assira) alle inondazioni rabbiose, con gli eserciti che «rumoreggiano
come fiumi in piena», per poi straripare e dilagare nei paesi assaliti come
farebbe una alluvione incontenibile (Isaia 8, 5-10).
[41] Sono questi, in particolare,
tutti gli eventi di ordine comunitario che, in una concezione culturale
cui è estranea la differenza tra
natura e cultura, sono assimilati senz'altro ad eventi cosmici. Così i disordini
naturali e quelli sociali vengono
ad identificarsi nella comune epifania sacrale maligna e questa identificazione
che è reale e non simbolica va tenuta sempre presente in sede di analisi.
[42] È, come noto, la visione
religiosa del profeta iranico Mani (216-277).
[43] Meditando sulla storia
d'Israele, Isaia è convinto che nei giorni del passato era Yahweh stesso
in persona, senza mediazione angelica alcuna, a soccorrere il popolo eletto
(Isaia 63, 9). In Salmi 67 (66), 34 e in Salmi
68 (67), 5, è Yahweh stesso che interviene, cavalcando sulle nubi, come
un Dio dell'uragano del Vicino Oriente. Cfr., anche, Zaccaria 10; 11, 1-3 (ove si registrano interventi divini con imponenti
devastazioni territoriali). Va ricordata, del resto, la perdita degli scritti
sacri prebiblici, quali il Libro di
Yahweh e il Libro di Yashor,
narrazioni epiche delle peregrinazioni e della conquista israelita delle
terre di Canaan, ove le teofanie personali
di Yahweh dovevano essere probabilmente frequenti.
[44] "Mal'akh"
per gli Ebrei, "Aggelos"
per i Greci.
[45] L'origine di questi
esseri va ricercata nella affollata e variegata demonologia, positiva e
negativa, cananea (penso agli "Spiriti volanti"), mesopotamica
e anatolica. Ad Ugarit, in riferimento ai Principi del Male, si citano i
nomi di Motu, Rashpu, Yammu che comandano intere legioni di demoni (cfr.
M. BALDACCI, La scoperta di Ugarit. La città-stato ai primordi
della Bibbia, Piemme, Casale Monferrato,
1996, pp. 100-105).
[46] S. DIONIYSII AREOPAGITAE, De coelestis hierarchia. Tale ordinamento fu, poi, seguito da S.
Tommaso e da Dante.
[47] Gli Angeli in armi,
buoni o cattivi, sono di norma i Principati, le Potestà e le Virtù ed, eminentemente,
l'Arcangelo Michele che, rivestito originariamente della clamide bizantina,
indosserà, poi, in Occidente, la tenuta militare romana o quella in voga
nel Quattro e nel Cinquecento europeo (cfr. M. BUSSAGLI, Storia degli Angeli. Racconto di immagini e di idee, Rusconi, Milano, 1991,
pp. 156-159). Vengono in certi casi rappresentati con lo scudo crociato,
la mazza da guerra, la lancia e la cotta di maglia.
[48] Per due volte Giovanni
cerca di prostrarsi per adorare l'Angelo, ma l'Angelo glielo vieta perché
Egli, come lo sono Giovanni e gli stessi Profeti, non è altro che un servo
di Dio. Solo Dio deve essere adorato (Apocalisse
22, 8-9). Per Paolo il culto angelico
è rifiutato perché con la Resurrezione di Gesù è stata abolita l'antica
Legge che era stata lo strumento del dominio degli Angeli, dei Principati
e delle Potestà (Colossesi 2,
12-18 ). Cfr. anche 1 Pietro 3, 22. Si ricordi, del resto, la
celebre formula «Chi è simile al Signore tra gli angeli di Dio?» in Salmi 89 (88), 7-8. Contro possibili forme
devozionali "idolatriche" e "superstiziose", è noto
che il culto angelico – promosso per influenza degli apocrifi veterotestamentari
tra il II e il V sec. d. C. – era stato vietato (can. 35) dal Sinodo di
Laodicea del 320, dal Concilio di Calcedonia del 451 e da quello Lateranense
del 1215. Agli Angeli è dovuta unicamente la dulìa, cioè l'invocazione, perché, data la loro prossimità al Signore,
intercedano presso di Lui. Solo a Dio, invece, è dovuta la latrìa (cfr. D. KECK, op. cit., pp. 172-173).
[49] Michea vede schierato
intorno al Signore l'intero esercito celeste (1 Re 22, 19).Per lo PseudoDionigi, poi, il numero degli angeli «sorpasserebbe
la serie limitata e debole dei nostri numeri materiali» ed essi sarebbero,
allora, «più che numerosi» (anarithmetoi)
(De coelesti hierarchia, cap. XIV).
[50] Giovanni 12, 31.
[51] Daniele 12, 1; l'Angelo del Signore in Zaccaria 3, 1-7 potrebbe essere Michele.
Cfr. anche, Testi di Qumran, a
cura di Florentino Garcìa Martinez, ed. it. a cura di C. Martone, Paideia,
Brescia ,1996 (d'ora in avanti Qumran),
La regola della guerra, 1QM XVII, 6-8,
gli Inni contro i demoni, II Q II IV, 8-13.
[52] Del resto, non tutti
i principi infernali, tardivamente descritti, sono dei guerrieri.
[53] Sapienza 2, 24.
[54] Cfr. J. WIER ( J. WEYER
o VIERUS, in latino), Opera omnia,
Petrum Vanden Berge, Amsterdam, 1660, pp.649 e ss. L'indemoniato gerasano,
ad es., è posseduto da una intera legione di demoni (Marco 5, 9; Luca 8, 27 e
ss.). Va ricordato che la legione romana contava, appunto, 6000 uomini.
[55] Un mosaico di S. Apollinare
Nuovo a Ravenna, datato intorno al 520, ci dà la prima immagine del diavolo,
un angelo umanoide rosso. Come animale o come mostro (code e orecchie animali,
barba caprina, artigli e zampe e più tardi le corna) cominciò ad apparire
dall'XI sec. e divenne alato con penne di uccello. Le celebri ali di pipistrello
comparvero successivamente a partire dal XII sec. in poi (J. B. RUSSELL,
Il Diavolo nel Medioevo, tr. di
F. Cezzi, Laterza, Roma-Bari, 1987, pp. 95 e ss.).
[56] Questo paradigma mitico
è alla base della usuale demonizzazione del nemico, in particolare delle
orde degli invasori nomadi. Le etnie Tatare di stirpe mongolica, che invasero
anche l'Europa orientale all'alba del XIII sec. agli ordini di Gengis Kan
e che sconfissero nel 1223 i principi russi sul fiume Kalka, furono battezzati
senz'altro come Tartari, cioè, come creature infernali, e apparvero, stando
alle descrizioni dei cronisti, con fattezze fisiche aliene e terrificanti.
Remigio di Auxerre riferisce che innumeri persone credevano di riconoscere
i popoli di Gog e di Magog, annunziatori dell'Anticristo, nelle orde degli
Ungari invasori (cit. da M. BLOCH, La
società feudale, tr. di B. M. Cremonesi,
Einaudi, Torino, 1987, p.71).
[57] Efesini 1, 20-23; 2, 2. Per Paolo si tratta dei Principati
e delle Potestà – elementi del
mondo retti dalla Legge (Galati 4, 3-9) – dominatori di questo mondo
di tenebra (Efesini 6, 12). Anche
secondo S. Tommaso, Satana risiede agli Inferi, cioè sottoterra (eredità
acquea e ofidica), ma il suo terreno d'azione è l'aria caliginosa tra la
dimora celeste e la terra (Summa Theologica,
1 q. 64 a. 4). Jacopo da Varazze (Legenda
aurea, CXLV, San Michele Arcangelo, 2.2) afferma che i demoni occupano
lo spazio intermedio tra cielo e terra e, svolazzano attorno a noi numerosi
come mosche. Nel XVI secolo attraverso tali bassure si vedranno incrociare
i voli delle "streghe".
[58] Cfr. A. AUGUSTINI, De genesi ad litteram libri duodecim,
III, 10, 15. Cfr. C. HART, Immagini
di volo. Il tema della ascesa e della caduta nella cultura occidentale,
tr. it. di E. Manzoni, Red, Como, 1993, pp. 210 e ss., pp. 219 e ss.
[59] Nella celebre Vita di Antonio di ATHANASIO di Alessandria,
i demoni, contro i quali il Santo ingaggia furibonde battaglie, vivono numerosissimi
nell'aria che ci circonda e, quindi, non risiedono molto lontano da noi
(21, 4). Brulicando e volando senza posa possono anche penetrare dappertutto,
attraversando, persino, porte chiuse (28, 5). Di notte i confratelli in
visita al Santo vedono la montagna circostante cosparsa di fiaccole e odono
clamori di voci numerose e tintinnii di armi come prodotti dal transito
di eserciti in marcia. Era S. Antonio che combatteva nella notte contro
i demoni dell'aria (51, 3). Osservando, poi, in visione, quali ostacoli
si frappongano a quanti vogliono attraversare l'aria per ascendere ai cieli,
S. Antonio comprende appieno la gravità dell'avvertimento di S. Paolo di
guardarsi dalle Potenze dell'aria (65, 6-7; 66, 2-6). Squilli di trombe
e strepiti di armati avrebbero accompagnato la peste devastante l'Italia
ai tempi di Narsete (P. DIACONO, Historia
langobardorum, II, 4), mentre delle battaglie di fuoco nei cieli notturni
avrebbero preceduto l'invasione dei Longobardi in Italia (Ibid.,
II, 5). Nella Cronaca di Pietro
di Dusburg (da M. KEEN, op. cit., pp. 390-391), è riportato l'episodio dell'urlo
udito da una anacoreta, proveniente dai demoni dell'aria che si apprestavano
ad una grande battaglia contro una compagnia di Crociati che l'indomani
sarebbero stati sconfitti (anno 1261).
[60] È plausibile interpretare,
sulla base della cosmologia tripartita, cananea ed israelita, articolata
in cielo-terra-inferi (l'Abisso), quest'ultimo come un residuo fossile del
Caos, un'esistenza quasi totalmente negativa e, tuttavia, sempre reale.
A tali estremi confini del Cosmo –
Mot per i Cananei, Sheol (letteralmente
«tana della volpe») per gli Israeliti – il Male e i suoi accoliti si trovano
relegati fino alla fine dei tempi. È significativo che il Papa Innocenzo
IV, al secolo Sinibaldo Fieschi dei Conti di Lavagna (XIII sec.), abbia
inviato ai Mongoli una lettera, diffidandoli di attaccare i popoli cristiani
per non violare l'ordine, la giustizia e la pace del mondo assicurata nei
cieli dai cori angelici.
[61] Cfr. la commovente
preghiera per la disfatta in Salmi
60 (59); Ezechiele 14, 21; 21,
19; Amos 3, 6; 7, 1-6; Gioele 1 , 4; 1 Pietro
5, 8.
[62] Cfr., in proposito,
R. GREAVES e R. PATAI, I miti ebraici,
Tea, Milano, 1990, pp. 34-38, ove, tra l'altro, vengono evidenziati i significati
di termini chiave ebraici, come Tohu
(Vuoto) e Bohu (Caos).
[63] Genesi 3, 1-5. Il serpente dell'Eden è un fossile mitico
delle Acque primigenie, come lo è, del resto, l'Angelo ribelle che, probabilmente,
è sempre stato "ribelle".
L'ipotesi, supportata, invero, da dati alquanto ambigui e eterogenei, del
carattere originario del Male, qui associato al Caos acqueo precosmico,
consente di evitare una poco comprensibile «creatio ex nihilo» del Male
stesso, se il nulla lo si intende ellenicamente come pura negazione dell'Essere.
Del resto, se il Male è stato sconfitto nello scontro cosmogonico, ma non
ucciso, è evidente che esso non può non essere ancora presente nell'universo,
sia pure nello stato di relitto.
[64] Isaia 30,7; 51, 9-10; Giobbe 9, 13; 26, 12-13; Salmi
74 (73), 13-14; 89 (88), 11.
[65] Il Nemico appare ancora
come drago a S. Margherita di Antiochia che aveva chiesto a Dio di vederlo,
per così dire, "materialmente" (J. DA VARAZZE, Legenda aurea, XCIII, Santa
Margherita, ed. a cura di A. e
L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino, 1995, p. 507). Nella chiesa di S.
Michele a Bevagna (Umbria) – fine XII o inizio XIII –
il drago apocalittico del portale ha un corpo anguiforme a scaglie,
con terminale di serpente, quattro zampe di rapace, due ali tozze e una
testa di lupo.
[66] Isaia 27,1; Salmi
74 (73), 13-14; Giobbe 3,
8; 40, 25 e ss.
[67] Significativamente
l'Egitto e il Faraone assimilato al Coccodrillo «sdraiato in mezzo al fiume»
(Nilo) sono identificati con il Male e quindi
essi, insieme a tutti gli altri consimili sono da assumere come dei
relitti fossili mitici delle Acque primordiali (Ezechiele
29, 3). Cfr. la splendida descrizione del mostro in Giobbe 40, 25-41, 1-26, ove ci appare come un rettile corazzato e
scaglioso sul dorso e sul ventre, impenetrabile ai colpi di qualunque arma
umana e spirante fumo dalle narici e fiamme dalle fauci armate di acuminate
zanne. È talmente enorme che incede sulla terra arando il terreno come un
erpice e, quando nuota in mare, lascia una scia "canuta" per il
vorticoso ribollire delle candide spume da esso sollevate.
[68] Descritto in Giobbe 40, 15-24. È evidente l'origine
egiziana di tale figura potente, tenebrosa e maligna, derivata dal dio Set,
l'ippopotamo rosso che personifica il male nei miti egizi.
[69] Anche Belial. Cfr.
2 Corinzi 6, 15; Qumran, Regola della guerra,
1 QM XIII, 4-5, 11-12. In Qumran, Libri dei Patriarchi, nelle Visioni di Amram (4Q544) al fr. 2 compare
accanto a Belial anche Melki-Resha, come dominatori, entrambi, delle regioni
tenebrose.
[70] Nella tradizione giudaica
i Vigilanti (cfr. Qumran, Libri di Enoc, 4Q201 I) sono gli
Angeli che si accoppiarono con le donne, generando da queste i Giganti.
La nascita, le malefatte e l'imprigionamento – fino al giorno del Giudizio
– di questa schiatta terrestre gravemente corrotta sono descritti nei Libri di Enoc (testo mutilo parabiblico dell'inizio II sec. a. C.), sopra
citato, ove compaiono le gesta di molti demoni (centocinquanta) e dei loro
implacabili nemici, gli Arcangeli Michele, Raffaele e Gabriele (cfr. in
particolare 4Q 201 III e, inoltre, 4Q 204).
[71] L'uomo è stato fatto
«poco meno degli Angeli e poco meno di Dio» (Salmi 8, 6).
[72] Il principio di non
contraddizione non è stato mai vincolante negli universi mitico-rituali.
[73] Simili convinzioni
costringono alla benedizione e alla esorcizzazione di quasi ogni cosa: l'acqua,
il cibo, la casa, il luogo di lavoro, il raccolto, la mandria, il pozzo,
lo sposo novello, il letto nuziale, il pellegrino, il bordone, l'esercito,
la spada, la lancia, lo scudo, il vessillo e la persona stessa del cavaliere
(M. BLOCH, op. cit., pp. 356-358).
[74] Cfr. lo splendido offertorio
di Davide (1 Cronache 29, 11-14)
e 1 Cronache 5, 22; 2 Cronache 20, 15-30; 2 Cronache 14, 8-14; 2 Cronache 36, 22-23. Oloferne, comandante
in capo dell'esercito di Assur, muore perché non ascolta il consiglio datogli
da Achior di non attaccare gli Israeliti quando il Dio di Israele è con
loro (Giuditta 5, 20-24). Cfr. Deut., 8, 17; Proverbi 21, 31; in Salmi 68 (67), 1 e ss. la gloria di Israele
è la gloria di Yahweh. Cfr. Qumran,
La regola della guerra, 1QM
XI.
[75] Ad es., un guerriero
a cavallo, coperto di un'armatura d'oro, e due giovani splendidi per bellezza
e per forza, appaiono improvvisamente e percuotono Eliodoro, penetrato nel
Tempio con una schiera di armati per asportarne il tesoro (2 Maccabei 3, 25-34). La sottrazione fu possibile, poi, ad Antioco
IV solo perché Yahweh aveva abbandonato il Tempio, lasciandolo senza protezione
(2 Maccabei 5, 17-20). Contro
Antioco Epìfane e il figlio Eupàtore, i guerrieri giudaici vincono perché
protetti da potenti manifestazioni celesti (2 Maccabei,
19-22). Alla vigilia della seconda campagna d'Egitto di Antioco IV Epìfane,
per quaranta giorni di seguito i cieli furono percorsi da schiere di cavalieri
armati di scudi, di lance e di spade, sfolgoranti per le vesti e per le
corazze d'oro, che si scontrarono senza posa in un turbine di frecce (2
Maccabei 5, 1-4). Nella battaglia contro
Timòteo, il Maccabeo è circondato e reso invulnerabile da cinque cavalieri
armati che, apparsi improvvisamente, disperdono i nemici con frecce e folgori,
provocando con il disordine una implacabile carneficina tra i nemici (2
Maccabei 10, 27-30). La sconfitta di Lisia
da parte del Maccabeo è, ancora una volta, propiziata e resa possibile da
un cavaliere celeste vestito di bianco, apparso a guidare le forze giudee
appena uscite da Gerusalemme (2 Maccabei
11, 7-10). Il generale Gallicano in lotta contro gli Sciti, spinto alla
battaglia da un giovane con una croce sulla spalla, soggioga i nemici perché
questi furono terrorizzati nel vederlo sostenuto nella mischia da due cavalieri
armati, improvvisamente apparsi a fiancheggiarlo (J. DA VARAZZE, op. cit.,
LXXXVII, I Santi Giovanni e Paolo,
p.462). Nella vita di S. Giovanni Crisostomo, Jacopo da Varazze racconta
come una intera divisione di Angeli proteggesse di notte il palazzo dell'Imperatore
di Costantinopoli, mettendo più volte in fuga gli scherani di Gaima, capo
della cavalleria imperiale, che voleva incendiare il palazzo e impadronirsi
del potere (CXXXVIII, San Giovanni
Crisostomo, op. cit., p. 759).
[76] Cfr. 1 Cronache 14, 8-16; 2 Samuele 5, 23-24.
[77] Cfr. Qumran, Regola della guerra, 1QM XIV, 4-7.
[78] Lo Spirito del Signore
si ritirò da Saul e questi fu posseduto da uno Spirito cattivo (1 Samuele 16, 14-23; 18, 10-12; 19, 9-10)
che lo faceva vaneggiare. E, così, egli finì nelle mani dei Filistei.
[79] Il peccato capitale
per il popolo di Israele è la violazione del primo Comandamento. L'idolatria
provoca l'ira puntuale e incontenibile di Yahweh, perché «tutti gli dei
delle nazioni sono un nulla» (Salmi
96 (95), 5). Cfr. l'illuminante episodio della scoperta degli idoli sotto
le vesti dei caduti giudei in 2 Maccabei
12, 40, come il vero motivo della loro inevitabile morte in battaglia.
Cfr., anche, Isaia 2, 6-22.
[80] «Io volgerò gli occhi
su di loro per il male, non per il bene» (Amos 9, 4). Cfr. Isaia 5, 26-30;
7, 18 e ss.; 9, 10-11; 10, 5-19
, 24-35; 30, 30 e ss. (contro l'Assiria); 41, 1-5; 45, 1-7 (Ciro, spada
di Yahweh.); Geremia 44, 11 (contro
il regno di Giuda). Yahweh «con mano tesa e braccio potente» scaglia contro
Sedècia, re di Giuda, i Caldei di Nabucodonosor (Geremia 21, 4 - 5). Cfr., inoltre, 2 Re 24, 2- 4 (contro Joiakìm); 2 Cronache
24, 23-25 (contro Ioas) ; 2 Cronache
13, 1-18 (contro Geroboamo).
[81] Poiché il Signore e
gli Angeli santi stanno nell'accampamento e in mezzo alla truppa, i guerrieri
devono essere e mantenersi puri (cfr.
Deut. 23, 10-13 e l'eco nei rotoli di Qumram
1 QM, VII, 5-6).
[82] Anche F. Cardini nel
suo eccellente studio Alle radici
della cavalleria medievale, op. cit., pp. 56-57, nota come nei contesti
culturali sciamanici la guerra era intesa e vissuta sempre come una lotta
contro i nemici umani e contro gli spiriti del male. Ma tale credenza bellica
può estendersi tranquillamente alla totalità delle culture a base mitico-rituale.
Secondo J. da Varazze, ad es., «i demoni, che stanno negli strati bassi
dell'aria si spaventano terribilmente quando sentono suonare le trombe del
Cristo, cioè le campane, e vedono i vessilli, cioè le croci», il cui carattere
profilattico e apotropaico è ovvio e palese (op. cit., LXX, Le Rogazioni maggiori e minori, p. 393). «Chi non sa – scriveva il
prete Helmod – che le guerre, gli uragani, le pesti, tutti i mali che si
abbattono sul genere umano accadono per opera dei demoni?» (citato da M.
BLOCH, La società feudale, op. cit., p. 102);
cfr., inoltre, sulla mentalità religiosa medievale Ibid., p. 97 e pp. 100-103.
[83] Per un'intera notte,
prima di guadare lo Iabbok, Giacobbe lotta strenuamente contro una improvvisa
epifania antropomorfa di Yahweh stesso (Angelo?) che resterà anonima, sebbene
Giacobbe lo interroghi, temendo, forse, che sia un demone. Alla fine, visto
che non poteva vincere Giacobbe, Yahweh gli sloga l'articolazione del femore.
Tale enigmatica lotta è la prova suprema, faccia a faccia con l'inguardabile
Dio degli Ebrei, sostenuta da Giacobbe e, tramite lui, dall'intera sua stirpe
che, d'allora, saranno benedetti e si chiameranno entrambi Israele. Il Dio
di giustizia non può vincere il giusto e la mancata sconfitta di Giacobbe
è la testimonianza della giustizia del Patriarca e di quella stessa di Dio
(Genesi 32, 23-33). Cfr. anche Osea 12, 4-5.
[84] In generale, tutte
le culture, per motivi identitari e di securizzazione, credono di stare
intorno al Centro di un Universo che non si estende, poi, tanto al di là
dei confini del proprio territorio. Tale Centro, inoltre, non è un luogo
geometrico, ma è il sito (naturale o artificiale che sia) in cui l'uomo
ritiene di poter incontrare la figura potente. Tale particolare condizione
esistenziale implica inevitabilmente la portata o la risonanza cosmica di
ogni atto umano e di qualunque evento naturale. Tra i numerosissimi esempi,
desidero ricordare il bellissimo Oracolo
contro Babilonia del profeta Isaia
13, 1-22 e i segni ominosi come l'uragano di pioggia,
di grandine, di vento, di tuoni, di folgori, e il terremoto, che scuotono
l'intera Francia, mentre il Paladino Orlando è steso in agonia a Roncisvalle
(La Chanson de Roland, Lassa CX,
vv. 1423 - 1437).
[85]Cfr. Daniele 10, 13-14. Questo problema fu affrontato
teologicamente (Gregorio Magno, S. Tommaso, Suarez) sancendo che il reciproco
conflitto tra Angeli, fedeli necessariamente al mandato ricevuto da Yahweh
di proteggere le rispettive nazioni, dipendesse dal fatto che tali divini
protettori ignorassero – almeno fino a quando non venisse loro rivelata
– la vera volontà di Dio nel caso specifico di un conflitto in atto (GREGORIO
MAGNO, Moralia in Job. XVII; TOMMASO, Sent. 2 d. 11 q. 2 a. 5; 4 d. 45 q.3 a.3;
Summa Theol., 1 q. 113 a.8 (Utrum
inter angelos possit esse pugna seu discordia).
[86] Deut., 4-6; 28,
15-68; Giosuè 23, 6-16; Ezechiele 39, 23-24.
[87] «La speranza dell'empio
è come pula portata dal vento» (Sapienza
5, 14).
[88] La morte in una battaglia
ingaggiata in nome di Cristo e per la Sua gloria è, per Bernardo di Chiaravalle,
assimilabile senz'altro al martirio dei Santi e frutterà una ricompensa
eterna, mentre l'uccisione del nemico – se il nemico è l'incarnazione di
Satana – non è un omicidio, ma un "malicidio". Il guerriero giusto
non deve pensare al guadagno, alla ammirazione degli altri per il terrore che semina tra i nemici o
alla gloria personale, ma alla vittoria e non deve presumere mai della propria
forza, ma deve contare solo nella potenza del Signore, Dio degli eserciti
(BERNARDO DI CHIARAVALLE, Liber ad
milites templi. De laude novae militiae, 1; 2, 10-24; 4; 8, 5-7, 18-19. Cito da Oeuvres complètes, XXI, in Sources chrétiennes, Parigi, 1990).
[89] Salomone, ad es., pregando
Yahweh, dice: «... poiché non c'è alcuno che non pecchi e Tu, adirato contro
di loro, li consegnerai ad un nemico» (1 Re 8, 46). «Temere Dio, questo è sapienza, schivare il male, questo
è intelligenza» (Giobbe 28, 28).
[90] Cfr. il singolare comportamento
di Giosia contro Necao, re d'Egitto (2 Cronache 35, 20-24).
[91] Non è sempre facile
distinguere un Angelo da un demone, perché «persino Satana si traveste come
un angelo della luce» (2 Corinzi,
11-14). È il caso occorso, ad es., a Santa Giuliana narrata da Jacopo da
Varazze, op. cit., XLIII. Nella
pienezza dei tempi, poi, quando apparirà l'Anticristo, le imposture e le
falsità si moltiplicheranno a dismisura. La vigilanza dovrà essere, allora,
massima (2 Pietro 3, 1-10; 1 Giovanni 2, 18-28; 4, 1-3; 2 Giovanni 5, 7-11; Giuda 13, 17-18. Nella nota Pseudomonarchia
daemonum di J. WIER, op. cit., che è un'appendice all'opera De praestigiis daemonum, l'elenco delle
effimere elargizioni mondane dei demonii appare completo: sapere di ogni
tipo, anche delle cose occulte, salute, amore, ricchezza, eloquenza, fama,
gloria, potere, facoltà di costruire e di distruggere ogni cosa, di evocare
i morti, di vendicarsi dei nemici, di invisibilità, di teletrasporto, etc.
(cfr. la trad. it. a cura di P. Pizzari, Mondadori, Milano, 1994).
[92] Il Signore invia un
Angelo di menzogna per ingannare i profeti di Acab (1 Re 22, 19-23). Cfr.
anche 2 Cronache 18, 12-27.
[93] Oltre al Libro di Giobbe,
cfr. anche Giuditta 8, 12 e ss.
[94] Deut. 20, 1-9; 1
Maccabei 3, 56. Poiché la battaglia è, del resto, causata dai demoni,
si può scendere in battaglia anche senza armi e conseguire la vittoria protetti
solo dal segno della Croce (J. DA VARAZZE, op. cit., CLXVI, S. Martino Vescovo, p. 909).
[95] Cfr. Salmi 33 (32), 16-17; 47 (46), 4; 48 (47),
4-8;1 Maccabei 3, 19. Il vissuto
dell'impotenza generale del vivere profano, la cui consapevolezza, eclissatasi
del tutto dopo l'avvento del razionalismo antropocentrico moderno e della
secolarizzazione del nostro secolo ha reso del tutto incomprensibili le
ragioni, e non solo quelle belliche, degli universi mitico-rituali premoderni.
[96] L'insegnamento di pace
di Gesù – sebbene opportunamente precisato in un celebre passo (Matteo 10, 34) – non implicava, comunque,
in alcun modo il perdono di Satana. «La bestemmia contro lo Spirito non
sarà perdonata» (Matteo 12, 31).
Cfr. anche, in proposito, M. KEEN, La
cavalleria, op. cit., pp. 91 e ss.
[97] Come già segnalato,
il notissimo Salmo 18 di Davide
(anche in 2 Samuele 22) canta
un'agghiacciante ierofania salvifica in cui Yahweh, annunziato da un sisma,
appare su una nuvola nera come un vero e proprio drago sbuffante fumo dalle
nari e fiamme dalla bocca, mentre scende dai cieli lanciando carboni ardenti
e saettando folgori e frecce in groppa ad un cherubino.
[98] Basti rileggere Esodo 23, 20-32, ove Yahweh, per la conquista
della terra di Canaan, promette al popolo eletto il sostegno devastatore
di un Angelo, cui si deve obbedienza «perché il nome di Yahweh è in Lui».
[99] Si tratta di sconvolgenti
epifanie meteoriche. Il Signore arriva con il ferro e con il fuoco, montando
su un turbine di carri da guerra (Isaia 66, 15-16).Del resto gli stessi quattro venti sono intesi come
carri rombanti, tirati da cavalli bai, neri, bianchi e pezzati, che muovono
dai quadranti dell'universo, galoppando nell'aria (Zaccaria 6, 1-8). Per distruggerla, Yahweh manderà contro l'Elam i
quattro venti (Geremia 49, 36).
[100] Significativa è l'identificazione,
frequente nella Bibbia, tra il nulla, l'idolo e il demonio (cfr. Deuteronomio
32, 17; 1 Cronache 16, 26; Isaia 44, 9-20; 96, 5; Salmi
106 (105), 37. Cfr. anche 1 Corinzi
8, 4; 10, 19-22).
[101] Isaia 17, 13-14;
Salmi 65 (64),8; in Salmi
144 (143), 5-7 i nemici di Davide sono senz'altro assimilati alle «grandi
acque», cioè a quelle «di sopra» e a quelle «di sotto». Cfr. anche Apocalissi 17, 15; 19, 6.
[102] È noto l'episodio della
morte di Uzza (2 Samuele 6, 7-8).
Raffaele, uno dei sette angeli che «stanno al cospetto di Dio», pur apparendo
in forma umana, terrorizza Tobia e Tobi, quando rivela loro la sua vera
identità ( Tobia, 12, 15-19).
[103] I Re 19, 11-13.
[104] Cfr. 2 Cronache 5, 13.
[105] Cfr., ad es. in Salmi
18, 13, il fulgore salvifico di Yahweh;
Matteo 28, 2-3; Luca 24, 4; Giovanni 20, 11-12; Atti 1, 10.
[106] Cfr. E. CASSIN, La splendeur divine. Introduction à l'étude
de la mentalité mésopotamienne, Mouton et Co., Parigi 1968. Cfr. in Daniele 10, 5-6, il fulgore di una apparizione
angelica e in De coelesti hierarchia,
cap. XV, par. 2, il ruolo privilegiato del fuoco su ogni altro elemento
nelle rappresentazioni delle teofanie visive, secondo l'Areopagita.
[107] L'interpretazione simbolica,
di matrice neoplatonica, di tali raffigurazioni, a partire da Filone, Clemente,
Origene, PseudoDionigi e Gregorio di Nissa, ne ha stravolto del tutto il
senso originario. Cfr. ad es. il De coelesti hierarchia dello PseudoDionigi, cap. I, par. 2-3; e, in
particolare, Cap. II, par. 1, 5. Per l'approfondimento di tale complessa
tematica, mi permetto di rinviare al testo di AA. VV., Mostri divini. Fenomenologia e logica della metamorfosi, Guida, Napoli,
1991, ove ho presentato, accanto ai contributi di altri eminenti saggisti,
un'analisi fenomenologica introduttiva ad uno studio rinnovato del fenomeno
ecumenico della metamorfosi.
[108] Il celebre Cherubino,
che è il primo figlio di Dio a
comparire sulla scena biblica come guardiano del Giardino dell'Eden, impugnando
(?) una spada fiammeggiante, diventa una rutilante, mostruosa epifania meteorica
nel Libro di Ezechiele, sicuramente per influssi della cultura religiosa
mesopotamica, ricevuti dagli Ebrei durante gli anni della loro cattività
babilonese, che hanno attivato probabili precedenti motivi cananei. Non
molto diversi dai Sukkad (inviati) o dai mostruosi Kerub o
Karibu, dai Lamassu e dagli Shedu, babilonesi
e assiri, come i Tori androcefali, barbuti
ed alati, apotropaici, custodi delle soglie, ma, forse, più vicini alle
Sfingi-grifoni siriache e mitanniche (II millennio) e, soprattutto, alla divinità egiziana Harmertj dalla
testa di Bes (cfr., in proposito, l'attento volume di M. BUSSAGLI, Storia degli Angeli. Racconto di immagini e di idee, op. cit., pp. 14 e ss.), i
cherubini appaiono ad Ezechiele con testa umana, corpo di leone, gambe umane
(?) con zoccoli di toro (come lucido bronzo) in luogo dei piedi e ali di
aquila, quindi con quattro volti e con quattro ali ciascuno, sotto le quali
spuntano mani d'uomo. Essi avanzano, cerimonialmente, con assoluta libertà
di movimento, tenendosi uniti con due sole ali – mentre le altre due coprono
il corpo – sia sollevandosi verticalmente, sia scivolando in linea orizzontale,
rapidi come il baleno anche sulla terra. Ciascuno dei loro corpi, infatti,
è munito al fianco di una ruota di grande circonferenza e i cerchi delle
quattro ruote sono gremiti di occhi tutt'intorno (Ezechiele
1, 4-25). La polioftalmia angelica è segno della potenza nella vigilanza
e nella profilassi apotropaica (Daniele
4, 10 e, poi, cfr. Zaccaria
3, 9 e 4, 10). Sebbene le componenti del loro sembiante non appaiono le
medesime in una visione ricevuta da Ezechiele in un luogo diverso dal canale
di Chebàr (Ez. 10, 1-17), ove gli occhi cospargono
anche l'intero loro corpo, è indubbio che simili potenze, se, invece, di
accompagnare la Gloria di Yahweh – come son soliti fare in tempo di pace
– vengono lanciate nelle battaglie, trasformati, in tempore belli, in macchine da guerra, con il loro rombo delle ali,
simile «al rumore di grandi acque, come il tuono dell'Onnipotente, come
il fragore della tempesta, come il tumulto di un accampamento» (Ezechiele 1, 24), è impossibile ai nemici
resistere loro. Secondo Ezechiele, poi, lo stesso Satana è un Cherubino
"protettore" decaduto (Ezechiele
28, 14 - 19). Nell'Apocalisse
di Giovanni, quattro esseri viventi con aspetto di leone, di vitello, di
uomo e di aquila, pieni di occhi davanti e di dietro e muniti di sei ali,
anch'esse costellate di occhi, rendono la gloria davanti al trono dell'Altissimo
(6, 8).
[109] L'Angelo del Signore,
che annunzia a Manoach e alla sua sterile moglie la nascita di Sansone,
monta in cielo con la fiamma dell'altare dell'olocausto (Giudici
13, 20).
[110] Efesini 2, 2; 6,
12.
[111] Cfr. Daniele 14, 33 e ss.
[112] L'Arcangelo Michele,
ad es., che, come già segnalato, suole prediligere le alture ove si scaricano
i tuoni e i fulmini o le spelonche e gli orridi in cui scrosciano le acque
ctonie (marine o dolci) e rombano i terremoti, sembra esalare nelle sue
epifanie un sottile sentore nefasto, se è vero che il Guerriero celeste
venne, di fatto, più riverito con timore che venerato con amore.
[113] Il passato e il futuro
mitici, quindi, non sono omologabili al passato e al futuro storici. La
rivelazione in quanto tale, sia essa profetica o no, rende sempre presente
in carne ed ossa l'evento rivelato. Diversamente, non sarebbe «rivelazione».
È, inoltre, impensabile che una profezia non ripeta i contenuti mitici essenziali
tramandati dalla tradizione religiosa. Così il Regno messianico – sia esso
di Davide o di Gesù – sembra la restaurazione della condizione edenica degli
inizi, andata perduta per l'inganno riuscito, teso all'uomo dal Serpente.
[114] L'interpretazione metaforica
o allegorica e la riduzione estetologica dei miti e dei riti, oggi molto
in voga, sono state del tutto devastanti per gli studi odierni dedicati
all'analisi del Sacro. Va rilevato, per altro, che l'esegesi allegorica
è divenuta usuale presso gli Ebrei solo a partire dal II secolo d.C., ritengo
per influenza ellenica. Nelle culture a base mitico-rituale i fatti – come,
ad es., presso gli ebrei, gli eventi storici quali le invasioni assire,
persiane, greche, romane, etc. – vengono spiegati dai miti perché i miti
forniscono i concetti e le categorie per spiegare ogni cosa. I miti, pertanto,
non possono essere intesi in queste culture come vuote allegorie dei fatti,
perché – a differenza delle credenze occidentali, soprattutto moderne –
il senso e l'esistenza sono frutto di rivelazioni potenti, sedimentate nei
miti stessi, e non sono attinte da dati esperienziali.
[115] La dicotomia, ampiamente
impiegata, Eterno – come l'al
di là del tempo, cioè come atemporalità trascendente – e Tempo – come irreversibilità e consumazione,
cioè come divenire storico immanente – è di origine ellenica e non giudaica.
Per gli Ebrei, ad es., Yahweh «sempre fu, è e sarà», cioè vive in un tempo
che scorre da sempre e procede all'infinito.
Ma una simile formulazione, per un filosofo greco come Parmenide che per
primo ha intuito l'essenza logica e ontologica dell'Eternità, sarebbe intimamente
contraddittoria.
[116] La ripetizione domina
da cima a fondo il pensiero e l'agire mitico-rituali.
Ad es. Giuda, prima di scontrarsi con Nicànore, prega Yahweh perché, inviando
un Angelo, ripeta l'eccidio degli Assiri di Sennàcherib, puniti perché avevano
bestemmiato Dio. La preghiera fu ovviamente esaudita (1 Maccabei 7, 40-50).
[117] Qumran, Regola
della guerra, 1QM XIII, 14-16. La Regola
della guerra (1QM) è un trattato bellico ebraico che fissa le norme
per l'organizzazione e la strategia della comunità essena (da I sec. a.
C. alla prima metà del I d. C.), fondato liturgicamente su precedenti mosaici,
ed è esemplare per la palese, assoluta, identità che vi si riscontra tra
guerra e lotta inesorabile contro il Male. Al suono prolungato della teruah che ricorda a Yahweh di soccorrere
il popolo eletto nel tempo dell'angustia (XV, 1-3), si scontreranno per
sei volte il figli della luce (ebrei), guidati da Dio e dall'intera assemblea
angelica, con i figli delle tenebre (nazioni pagane), guidati da Belial.
Solo al settimo assalto Belial sarà umiliato e tutti i suoi accoliti divini
ed umani saranno sterminati per l'eternità (XVIII, 1-3).
[118] Cfr., ad es., Ezechiele 38 e 39 (la battaglia cosmica
di Yahweh contro Gog, re di Magog); Zaccaria
9, 14-17.
[119] Cfr. l'Apocalisse di Isaia 24, 1 e ss., ove rispunta, tra una luna rossa e un sole pallido,
l'antico motivo del Caos acqueo con l'apertura delle cateratte dei cieli
(ibid., 18). «...ma il serpente
mangerà la polvere» (Isaia 65,
25).
[120] Tribolazioni fisiche
e morali, disordini sociali e cosmici imponenti (carestie, terremoti, guerre,
eclissi di sole e di luna, caduta degli astri) piomberanno sull'umanità,
quando Cristo giungerà sopra le nubi del cielo con tutti i Suoi angeli)
Matteo 24, 1-31; 25, 31-46. Marco 13. In Luca 21, 8-28 ricompare il remoto mitologhema del fragore del mare
e dei flutti che «angosciano i popoli».
[121] Cfr., ad es., l'Apocalisse di Esdra, VI, 15, 28-63; l'Apocalisse di Tommaso, II, 1-2, dove si
profetizza «di un grande sollevamento del mare».
[122] Isaia 35, 5-10; Qumran,
Regola della Comunità, 1QS IV ,12-26; La
regola della guerra, 1QM XIV, 1-16.
[123] Isaia 25, 8; 26, 19; Apocalisse 7.
[124] Isaia 26, 14.
[125] Isaia 26, 15 («Hai fatto crescere la Nazione, Signore,
hai dilatato tutti i confini del paese»).
[126] Amos 9, 11-15.
[127] Isaia 2, 4; 11, 6-9; 65, 25; Zaccaria 9, 9-10.
[128] Isaia 65, 17; Apocalisse
21, 1.
[129] Isaia 65, 18-24.
[130] Zaccaria 14.
[131] Sapienza 5, 15-23.
[132] Matteo 13, 39; 49.
[133] Malachia 3, 19.
[134] Gioele 2, 2.
[135] 1Tessalonicesi 5, 2-3; Come il Diluvio,
l'Apocalisse giungerà all'improvviso perché, al di fuori del Padre, nessuno
saprà il giorno e l'ora del suo arrivo, nemmeno gli Angeli o il Figlio (Matteo 24, 36-39).
[136] Ezechiele 33, 3-6;
Osea 5, 8; Amos 3, 6; Gioele 2, 1; Matteo 24, 31.
[137] In Qumran, Regola della guerra, 1QM IX, 14-16,
è imposto che su tutti gli scudi delle torri siano scritti i nomi angelici
di Michele, Gabriele, Sariele e Raffaele; cfr. anche ibid., XII, e in particolare, 1-5.
[138] Zaccaria 14, 3.
[139] «Le porte dell'inferno
non prevarranno» (Matteo 16, 18).
I miti, come sistemi generali di sicurezza e di sostegno per le comunità
e come modelli per comprendere il
mondo e, soprattutto, per agire razionalmente
in esso, non possono che essere delle formulazioni essenzialmente positive
ed ottimistiche.
[140] Apocalisse 1, 13-16.
[141] Ezechiele 1, 5-21.
[142] Come un uragano, schiere
innumeri di Angeli e di «esseri dai molti occhi» grondano giù dalle fratture
celesti in Apocalisse di Giovanni,
17.
[143] Apocalisse 4, 5-8; 5.
[144] Apocalisse 6; 7, 1-3.
[145] Apocalisse 8, 6-13.
[146] Apocalisse 10, 7.
[147] Apocalisse 9, 1-9.
[148] Apocalisse 9, 13-19.
[149] Apocalisse 12, 1-5.
[150] Apocalisse 12, 7-12. S. Michele vince, tuttavia, «per mezzo del sangue dell'Agnello».
[151] Apocalisse 12, 13-18; 13, 1-7.
[152] Apocalisse 14, 6-20; 15, 16.
[153] Apocalisse 16, 13-16.
[154] Lo spettacolo di uccelli
rapaci che si cibano delle carni dei caduti sui campi di battaglia è, fin
dalle più antiche testimonianze letterarie e figurative del Vicino Oriente
antico, il simbolo stesso dell'abominio dei nemici sconfitti.
[155] Apocalisse 19, 11-21.
[156] Apocalisse 20, 1-3.
[157] Apocalisse 20, 7-9. Nell'apocrifo Apocalisse di Giovanni, 14, l'uragano di
fuoco è una operazione distruttiva angelica.
[158] Apocalisse 20, 10-15. Cfr. anche Qumran,
Inni contro i demoni, B Salmi di esorcismo, IIQII, III- V, ove gli eventi
mitici, concernenti il soccorso di Yahweh e dei suoi Angeli e la carcerazione
di Belial nello Sheol, si riattivano
nell'esorcismo, ora come sarà. E l'indemoniato verrà, così, necessariamente
liberato.
[159] Nell'Apocalisse di Pietro, 5, ove il giorno
del giudizio è dominato dall'elemento igneo, crudele e inestinguibile, le acque saranno trasformate in carboni ardenti
e il mare stesso diventerà di fuoco. Cfr., anche, ibid., Oracoli sibillini cristiani, III, 195 e ss., 285 (angeli con
fruste e catene di fuoco).
[160] Apocalisse 21, 10-27; 22, 1-5; Qumran, La nuova Gerusalemme, 2Q 24, 5Q15;
nell'apocrifo Apocalissi di Paolo,
23, compaiono anche dodici torri e quattro fiumi, di miele, di latte, di
vino e di olio.
[161] Apocalisse di Giovanni, 25. In questo caso il Regno
Messianico, in generale, non è altro che la restaurazione della condizione
edenica degli inizi, andata perduta con il peccato di Adamo.
[162] Per S. Bernardo, ad
es., la II Crociata, indetta contro i Saraceni che minacciavano Gerusalemme,
è la battaglia apocalittica delle schiere angeliche contro l'Anticristo,
cioè contro Maometto.
[163] L'incomprensibilità
radicale del comportamento bellico risuona potentemente in Qumran, I Q 27, Libro dei Misteri,
fr. 1, col. 1, 9-12.
[164] Per un approfondimento
fenomenologico di tale vissuto elementare, mi permetto di rinviare al mio
contributo dal titolo Prove fenomenologiche
su segni sacrali e, in particolare, al I paragrafo («La disperazione fossile»), contenuto in AA. VV.,
Filosofia in dialogo. Scritti in onore di Antimo
Negri, a cura di F. Fanizza e di M. Signore, A. Pellicani, Roma, 1998,
pp. 175.
La
versione cartacea di questo articolo è uscita su:
Annuario
Filosofico,
XV, Mursia, Milano 1999, pp. 43-81.