Hieros   

 

 

ANNALISA CAPUTO

La questione del Sacro.

Riflessioni a partire da un recente ciclo di seminari interdisciplinari:

«Hieros. Sulla rivelazione».

 

 

Premessa: la questione del Sacro nel nostro «tempo di povertà»

   «L'elemento in cui la divinità è presente è il Sacro. [...] Il Sacro è la traccia degli dei fuggiti. Ma chi sarà in grado di rintracciare questa traccia? Le tracce, sovente, sono ben poco visibili e sono sempre il retaggio di un'indicazione appena presentita» - annota M. Heidegger commentando il verso di Hölderlin «...Perché i poeti nel tempo della povertà?»[1].

   Il tempo della povertà è quello dell'assenza di Dio, ma contemporaneamente quello in cui si tenta recuperare (come bisogno e come tensione) per lo meno una traccia del Sacro. Lasciando il linguaggio e il contesto heideggeriano (sul quale ci ripromettiamo di tornare nel finale), potremmo dire che è il tempo 'insieme' della secolarizzazione[2] e della risacralizzazione: là dove, subendo forse il contraccolpo di tanto umanismo e tanta 'esclusione programmatica' della questione del sacro e del divino dall'ambito del pensiero, della ragione, della ricerca (nella filosofia e nelle scienze), ci ritroviamo a dover fare i conti con ciò che abbiamo tentato di dimenticare, o mettere alla porta. Inutile fare esempi; sono sotto i nostri occhi: dai movimenti più o meno scomposti e pullulanti delle sette religiose alla New Age, dal tentativo dei filosofi e delle scienze umane di tornare a dialogare con la teologia[3], alla segreta insoddisfazione che abita il cuore del razionalismo occidentale, quasi come il segno di un desiderio di «ulteriorità» che non si lascia schiacciare dal mondo dell'utile, del calcolo, della tecnica, della frenetica temporalità quotidiana[4].

   Quello che ci riproponiamo in queste pagine è seguire una di queste tracce, quella che tenta di 'accostare' il fenomeno sacrale in maniera interdisciplinare: in dialogo e in ascolto: là dove ogni analisi, ogni approccio epistemologico, ogni contributo alla discussione, proprio nella consapevolezza della sua 'parzialità', può servire al comune cammino interrogativo.

   Ci riferiamo, in particolare, ad un ciclo di seminari interuniversitari e multidisciplinari sui fenomeni sacrali e religiosi, tenuti nel 2001 sotto il titolo: Hieros. Sulla rivelazione, seminari organizzati in quattro incontri dall'Istituto universitario Suor Orsola Benincasa (Napoli), dall'Università di Roma Tor-Vergata (Dipartimento di filosofia), dall'Università degli studi Roma 3 (Dipartimento di filosofia) e dalla Pontificia università Lateranense, Roma (Facoltà di filosofia), incontri che hanno visto la partecipazione di professori ed esperti provenienti dai più diversi ambiti di formazione e di competenza[5]. L'invito era già chiaro nella locandina del primo seminario: «la struttura, la modalità e i contenuti della rivelazione - testimonianze di un atteggiamento fondamentale dell'uomo nei confronti di se stesso e della totalità dell'esistente - che ha sostenuto per decine di millenni la vita umana vengono individuati e affrontati dialogicamente con una pluralità di prospettive disciplinari, quali la filosofia, la teologia, la fenomenologia, l'ermeneutica e, poi, specialisticamente, la storia, la linguistica, la storia dell'arte, la demoantropologia» e potremmo aggiungere la storia delle religioni, la cultura popolare, il diritto, la psicanalisi, la sociologia. «Una ricognizione ed una riflessione su credenze e su gesti di culture, cristiane e non cristiane, viventi ed estinte, basate tutte su una postura umana che oggi sembra irreversibilmente smarrita in Occidente».

   Dunque: il sacro e la rivelazione come comune orizzonte di ricerca: per le diverse culture e le diverse discipline: una bella sfida metodologica e concettuale. Non intendiamo certo ripercorrere tutte le tappe e i contributi presentati in questi seminari (che, tra l'altro, proprio per la loro forma 'aperta' sono ancora in via di prosecuzione). L'idea è, invece, quella di 'sfruttare' i contributi disciplinari emersi nelle diverse relazioni per segnare quella che con Heidegger abbiamo chiamato una 'traccia' del Sacro. Con una duplice premessa di umiltà: si tratta di fili che non abbiamo tessuto noi (e che possiamo solo tentare di intrecciare nella maniera migliore possibile); e si tratta comunque solo di solo 'una' possibile traccia, di una possibile trama. D'altra parte, in tempo di povertà, pretendere di fare di più forse sarebbe un errore più grande.

   Fatte queste dovute premesse, entriamo quindi nel cuore del discorso, che articoleremo a partire da tre domande-chiave: (1) una questione terminologica; (2) una questione metodologica e ontologica; (3) una questione di etica e di verità.

 

1) Una questione terminologica: il significato di 'sacro' e 'rivelazione', e il rapporto tra questi significati.

   L'unico risultato univoco (e condivisibile da parte di tutti) in questi seminari è stata paradossalmente la consapevolezza che i termini 'sacro' e 'rivelazione' possono essere usati (e di fatto vengono usati) in maniera decisamente non univoca: ovvero, per dirla con le parole di Piero Coda (e con la sua parafrasi aristotelica), la consapevolezza che «la rivelazione si dice in molti modi»; e anche il sacro leghetai pollachos[6]. Finché non saremo disposti ad ammettere che si possano intendere questi termini anche diversamente da come ognuno di noi li intende, e finché non riusciremo a 'convenire' sui loro molteplici possibili 'significati', sarà difficile (o addirittura impossibile) analizzare il sacro e la rivelazione nelle loro differenti implicazioni storiche e concettuali.

   Proviamo, allora, in maniera sintetica e schematica a vedere in quali 'sensi' è stato adoperato, nei seminari, innanzitutto il termine 'Sacro'.

a) Hieròs in contrapposizione ad aghiòs: Sacro contro Santo (o comunque diverso dal Santo). Qui il Sacro è inteso come orizzonte generale e impersonale di Divinità, come 'numinoso', come idea generale e neutra di divino[7]. Da distinguere dal Santo, dal Dio (e a maggior ragione dal Dio-Trinità). Mentre del secondo possiamo fare esperienza solo in una religione (ed è quindi compito 'proprio' della teologia parlarne), il primo - essendo un termine che indica in generale il rapporto che lega l'uomo alla trascendenza, al senso del Totalmente altro - può essere 'detto' e colto da diversi punti di vista. In questo 'spazio' del Sacro, sono abilitate ad inserirsi in maniera 'propria' tutte le discipline (ognuna a partire dai propri statuti epistemologici)[8].

b) Sacro elementare e Sacro complesso. In quest'ottica, fermo restando quanto detto sopra, si tenta di 'mediare' tra il Sacro e il Santo. C'è un fenomeno unitario, che è quello sacrale dell'apertura alla trascendenza. All'interno di questo fenomeno possiamo distinguere tra una forma più elementare (caratteristica delle società arcaiche), che poi è il 'sacro' propriamente detto; e una forma più eleborata, che sancisce il passaggio dalla realtà mitico-rituale a quella più propriamente religioso-'istitutiva' (la 'religione' come 'sacro complesso')[9].

c) 'Sacro' come manifestatività del tutto irriducibile alla manifestatività dell'esperienza (religiosa e di pensiero) greco-occidentale. Secondo questa prospettiva fenomenologica, è improprio proiettare sul 'sacro' categorie ad esso estranee, tipiche di una 'logica' ad esso storicamente e costituzionalmente successiva[10]. Il sacro è potenza intrusiva e donatrice assoluta di senso; è il modo in cui la manifestatività rivelativa viene vissuta nella realtà mitico-rituale; e quindi: al di fuori  dei dualismi propri dell'Occidente (trascendenza/immanenza, natura/sovranatura, spirito/materia, soggetto/oggetto, ecc.). E' la percezione che tutto il nostro essere, pensare, agire dipende da Altro: è altro in noi a 'farlo' (e questo altro è il Sacro). Percezione possibile solo in un universo in cui la 'coscienza' (ma il termine è già improprio) è assolutamente impersonale, non centrata in un 'io' (ma, appunto, nel sacro). Percezione che si è persa nel disincantamento occidentale in un certo senso già a partire da Parmenide e dal suo principio 'logico' di identità e non contraddizione: germe, in nuce, del concetto di soggettività e oggettività. Percezione, infine, nella quale e per la quale lo spazio non è prospettico, ma ubiquo; e il tempo non è storia, ma ripetizione; e la logica non è fondata su un'identità noetica, ma su un principio di analogia, omologia, principio hyletico, in cui non c'è differenza tra essere e apparire, essere e pensare, essere e dover essere, essere e linguaggio[11].

d) Se questo è vero per le società arcaiche, e se è così difficile tenere insieme l'immagine 'occidentale' del Sacro e quella mitico-rituale, forse - invece che di 'sacro' - è meglio parlare di 'mistero'. Il mistero in questo caso diventa l'orizzonte non meramente riducibile al 'soggettivo', ciò che indica un'ulteriorità rispetto all'esperienza propria dell'oggettuale e del mondano. In quest'ambito (ontologico-antropologico) possiamo poi distinguire i fenomeni sacrali propri delle società arcaiche dalle diverse religioni e dalla rivelazione in senso cristiano[12].

   Di conseguenza, diventa 'chiara' anche la nozione di 'rivelazione': termine da un lato (e in certi contesti) usato come sinonimo di 'manifestatività sacrale' (nei diversi sensi sopra indicati), dall'altro usato per intendere il movimento proprio del divino nei confronti dell'uomo, con sfumatura diversa nelle diverse religioni.

   Avremo quindi la rivelazione-manifestazione propria del sacro delle civiltà arcaiche; la rivelazione-manifestazione propria dell'esperienza greca dell'aletheia e della physis; la rivelazione-visione induista o la rivelazione-illuminazione buddhista; o più in generale le rivelazioni-religioni del Vicino ed estremo Oriente[13].

   E avremo poi la rivelazione così com'è intesa nelle grandi religioni monoteistiche. La rivelazione ebraica: il farsi-vedere di Dio cui corrisponde il camminare dell'uomo (come singolo: Abramo; e come popolo: Israele); il dono della Torah scritta e orale cui corrisponde la ricerca e lo studio; l'essere presente nella storia cui corrisponde la fatica della storia stessa; le dieci parole (e i dieci 'comandi') cui corrisponde il prisma dei sentieri attraverso i quali ogni singola esistenza si decide all'incontro con il Signore[14]. La rivelazione cristiana: per la quale Cristo rivela il volto del Padre, e nella 'consegna' dello Spirito svela in maniera compiuta il mistero trinitario dell'unica natura divina: divinità come relazione; relazione come legame 'personale'; legame personale come com-unione d'amore; comunione come comunicazione tra identità e alterità; identità/alterità trovata e conservata nel dono di sé all'altro e nell'accoglimento del dono che l'altro fa al proprio sé[15]: scambio di sguardi: unità nella diversità[16]. La rivelazione islamica: il cuore del Corano sceso sul cuore del 'Profeta': la consapevolezza che non è e non deve essere Dio a rivelarsi (perché in realtà in suo volto è già ovunque), ma è l'uomo che deve togliersi il velo per vederlo, fare vuoto dentro di sé per essere capace di ascoltarlo; e la consapevolezza che ogni uomo ha il suo velo, il suo vuoto, il suo cammino (unico e irripetibile) verso il divino: e che questa stessa diversità è rivelazione, bellezza, ricchezza[17].

   Da qui, ovviamente, una serie di problemi. Ci sono tanti Rivelanti quante sono le rivelazioni (e le religioni) oppure il Rivelante è unico e tanti sono solo i modi umani di dirlo e percepirlo? La rivelazione implica o esclude il monoteismo? E ancora: è possibile un incontro o un dialogo tra questi diversi modi di vedere e vivere il sacro e/o la rivelazione, oppure no? E, se sì, come, a partire da che cosa?

 



2) Una questione 'metodologica' ed 'ontologica': quattro impostazioni, quattro visioni del mondo.

   E' innanzitutto, probabilmente, una questione metodologica. Un'altra delle impressioni ricevute durante gli incontri seminariali è che in gioco (confronto/scontro) fossero per lo meno quattro grosse impostazioni metodologiche differenti, che potremmo indicare, per grandi linee, con gli aggettivi: 'ermeneutica', 'fenomenologica', 'teologica', 'scientifica'. 

   Impostazione scientifica. Tutto sommato si tratta della metodologia più semplice da capire e applicare. Ogni disciplina ha il suo statuto epistemologico. Non tutte le discipline sono tenute ad interrogarsi sui fondamenti di questi statuti: il loro compito è riportare ciò che hanno osservato e compreso. E' il caso della storia dell'arte, dell'antropologia, della demo-antropologia, della storia, del diritto, della psicanalisi, della sociologia, ecc. I relatori che, di volta in volta, a partire da questi ambiti disciplinari, hanno contribuito all'analisi del 'dato' sacrale e rivelativo non sono generalmente entrati in contrasto (né metodologico, né concettuale) con gli altri relatori. Perché ognuno si è limitato ad esporre una prospettiva scientifica particolare e, anzi, spesso, un argomento limitato e circoscritto all'interno dei risultati  generali della loro scienza (la rivelazione in India; alcuni manoscritti antichi; la possessione diabolica nella cultura popolare; le immagini acheropite del medioevo; la dimensione miracolistica e mariana; il concetto giuridico di autorità[18]; gli archetipi junghiani[19]; la storia della filosofia tra Settecento e Ottocento[20], ecc.). Le 'scoperte', in questo caso, non si escludono, ma si integrano e completano facilmente a vicenda. Non ne va di un'opzione di fondo, di una scelta di campo. Diverso è il discorso se si passa all'ambito religioso vero e proprio.

   Impostazione teologica. La cosa è più evidente nella teologia cattolica[21], ma non per questo meno presente negli altri monoteismi - anche solo volendo rimanere agli interventi seminariali relativi alla 'parte' ebraica e alla 'parte' islamica. Rivelazione implica conoscenza. Dio si è fatto conoscere: ad un popolo (Israele), ad un profeta (Maometto), nel Figlio (Cristo)[22]. Un 'vero' credente non può accettare un'equivalenza di verità. Sarebbe come negare la verità rivelata. Un dialogo ecumenico o interreligioso può porsi solo a partire dal presupposto che ognuno abbia chiara la propria posizione e la differenza di questa rispetto alle altre. Un irenismo pseudo-conciliante non aiuta né la religione né la ricerca. Sul 'Santo' l'accordo resta difficile, al limite dell'impossibile (almeno stando all'attuale impostazione delle teologie)[23].

   Impostazione fenomenologica. Ci riferiamo, in questo caso, alla fenomenologia presentata al convegno da Domenico Conci, da lui stesso definita «analitica» (non 'giudicativa', ma 'descrittiva'), «contrastiva» (non 'proiettiva', ma 'comprensiva': comprendo me comprendendo la diversità degli altri), «sfondata» (non occidental-centrica, ma legata all'epoché del proprio punto di vista)[24]. La 'neutralità' di questa proposta, però, non è affatto identica a quella dell'impostazione scientifica, perché - nel suo porsi come chiave di lettura contemporaneamente della realtà mitico-rituale-sacrale e (per contrasto) dell'intera civiltà occidentale - una tale fenomenologia presuppone e veicola una chiara posizione teoretica. Non si tratta di una scienza accanto alle altre, ma di una vera e propria 'filosofia', i cui presupposti (per quanto analitici, contrastivi e sfondati), se portati alle estreme conseguenze, sono in realtà 'forti' e non ammettono alternative. Non c'è un orizzonte comune a partire dal quale si stagliano poi le diverse interpretazioni, o visioni del mondo, o diverse epoche. Non c'è un centro a partire dal quale la storia e le civiltà si 'dimensionano'. Non possiamo dire che ci siano cose o realtà che vediamo diversamente: perché non esistono cose in sé, orizzonti in sé, epoche, storie, civiltà in sé. Esistono solo i modi in cui i singoli e le civiltà si percepiscono, si vedono, si costruiscono. Il mondo sacrale è uno di questi 'modi'; così come solo uno è quello occidentale. Irriducibili l'uno all'altro. Tanti centri de-centrati e non centrati in altro che in se stessi, ognuno vivente la propria nascita, la propria vita e la propria morte. Là dove l'unico compito concesso alla fenomenologia-filosofia è la loro descrizione: compito immane e al limite dell'impossibile, data la 'posizione' da cui comunque il fenomenologo parte (che è comunque il 'proprio' centro). Se questo è vero, diventa chiaro anche perché l'immediato bersaglio polemico di questa posizione è apparso essere (anche nei dibattiti seguiti al convegno) non tanto quello teologico, ma proprio quello ermeneutico.

   Impostazione ermeneutica[25]. Anche in questo caso, con il termine 'ermeneutica' indichiamo una posizione teoretica del tutto particolare, cioè quella per cui - al contrario di quanto visto nell'impostazione fenomenologica - il presupposto fondamentale è che si possono dare interpretazioni solo dove ci sono 'cose' da intepretare, e si possono dare diversità (epocali, storiche, culturali, e individuali) solo perché esiste un orizzonte comune in cui «già da sempre» siamo «gettati» come interpretanti, orizzonte che ci caratterizza in quanto 'uomini' e dal quale non possiamo mai svincolarci (perché non c'è uomo senza mondo, senza storia, senza legame con gli altri...)[26]. L'epoché fenomenologica, da questo punto di vista, è un'illusione: perché ci 'portiamo dentro' sempre tutti i 'pre-concetti' della nostra tradizione e della nostra cultura. Impossibile comprendere sé a partire dall'altro, perché, ogni comprensione parte dal sé. L'unico sforzo legittimo di tra-duzione e tra-sposizione tra il sé e l'altro si può dare a partire dal riconoscimento di ciò che accomuna. Non per dimenticare le differenze, ma proprio per valorizzarle sullo sfondo dell'identità[27].

 

3) Una questione di etica e di verità: come rispettare l'altro rispettando il 'proprio'

   Se questo è chiaro, può diventare chiara anche la proposta etica sottesa a queste diverse impostazioni. L'impostazione scientifica pretende e offre una neutralità valutativa che, pur implicando rispetto 'etico' della libertà di ricerca propria e altrui, programmaticamente non può dare indicazioni ulteriori su 'come' vivere e su 'cosa' fondare questo 'rispetto'[28]. L'impostazione religiosa trova invece fondazione etica in quell'Alterità che è anche fondamento ontologico e teologico. Il massimo a cui può arrivare il dialogo interreligioso pare essere il rispetto delle posizioni altrui e il riconoscimento di un 'minimo comune denominatore etico' (presente per lo più in tutte le grandi religioni): amare l'altro come se stessi. L'impostazione fenomenologica lega la questione etica a quella della 'verità': ciò che va veicolata non è solo la necessità del rispetto dell'altro in quanto altro, ma anche la consapevolezza che la verità dell'altro è vera quanto la mia: nessuna è più vera dell'altra e per questo va accolta e rispettata. L'impostazione ermeneutica, pur legando ugualmente verità ed etica, sostiene che ciò che va cercato è ciò che ci accomuna e che è vero per tutti (in quanto 'parte' dell'umanità dell'uomo): solo 'lasciando essere' questa verità possiamo riuscire a 'lasciar essere' e a lasciar incontrare anche le differenze; solo rispettando la verità che ci unisce e le differenze che ci individuano possiamo rispettare gli altri senza rinunciare alla possibilità di rispettare le nostre singole verità[29]. Non perché tutto è vero, tutto è da rispettare. Ma proprio perché tutto è da rispettare, possiamo cercare ciò che è più vicino al fondamento che ci accomuna (e, quindi, ontologicamente più vicino alla verità)[30].

   Posto questo, possiamo tornare alla 'questione' di partenza e vedere quale visione del 'sacro' sottintendano queste posizioni e che possibilità di dialogo ci sia tra di loro e più in generale tra i diversi modi di intendere e vivere la sacralità. Se per la scienza il fenomeno sacrale è un dato accanto agli altri (semplicemente da analizzare), se per la teologia il sacro (inteso come generica apertura dell'uomo alla trascendenza) è per lo più solo o ciò che precede storicamente la rivelazione del Santo o la tensione all'ulteriorità che caratterizza ogni uomo (indipendentemente dal suo credo), se per la fenomenologia la postura rivelativo-sacrale è inscrivibile solo nell'orizzonte mitico-rituale, per l'ermeneutica, invece, il Sacro può diventare proprio l'orizzonte che ci accomuna, il fondamento a partire dal quale riconoscere (senza schiacciarle) le diversità epocali, storiche, culturali, religiose, individuali.

   ...E qui può tornare utile il richiamo all'Autore con il quale abbiamo aperto queste pagine, e con il quale ci ripromettevamo di concludere.

 

4. Una questione aperta: l'orizzonte del Sacro heideggeriano come una diversa, possibile, origine di confronto e di dialogo.

   Heidegger, per quanto spesso nominato nei seminari, non ha avuto uno spazio suo proprio[31]. E questo certo per le ambiguità e la complessità della sua posizione: non solo in generale, ma anche, nello specifico, in rapporto alla questione religiosa e del sacro. Se ci permettiamo in conclusione di richiamarlo è solo come nota in margine, e solo pensando ad uno Heidegger molto particolare, in una fase molto particolare del suo pensiero: cioè quella della 'svolta' e ancora più precisamente del dialogo con Hölderlin, dagli anni '40 in poi[32]. E', infatti, nel dialogo con la poesia che Heidegger riscopre il termine 'Heilige' proprio come ciò che si sottrae alla presa scientifica, alla concettualizzazione teologico-confessionale classica, alla frantumanzione storico-fenomenologica. Ma come ciò che, proprio in questa sottrazione, può risultare poi fondante rispetto a tutte queste posizioni ed esperienze. In quest'ottica ci sembra che il pensiero heideggeriano possa fornire degli spunti importanti per sostenere quella che abbiamo chiamato «impostazione ermeneutica».

   Il sacro, scrive Heidegger seguendo Hölderlin, è «più antico dei tempi e sopra gli dei dell'Oriente e dell'Occidente». «La sacralità non è il alcun modo una proprietà presa a prestito da un dio prestabilito. Il Sacro non è sacro perché divino, ma il divino è divino, perchè a suo modo è Sacro»[33].

   Il Sacro è il 'fatto' che 'si dia' essere, si dia tempo, si dia mondo, si diano uomini; è «la meraviglia di tutte le meraviglie: che l'ente è»[34], meraviglia che avverte l'uomo in quanto tale, prima ancora di essere considerato e classificato come un uomo legato agli dei d'oriente o d'occidente. E perciò meraviglia che accomuna: i fedeli d'oriente e i fedeli d'occidente, gli appartenenti ad una religione e quelli che non appartengono a nessuna religione. Perché è dell'uomo in quanto tale stupirsi davanti a ciò che non dipende da lui, avvertire il mistero della 'presenza' (propria e altrui) al mondo, arrestarsi davanti ad un'Ulteriorità non ulteriormente giustificabile e razionalmente afferrabile.

   «Solo a partire dall'essenza del Sacro si può pensare l'essenza della divinità. Solo alla luce dell'essenza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare la parola 'Dio'. O non dobbiamo forse prima di tutto sapere intendere e ascoltare con cura tutte queste parole, affinché ci sia consentito esperire come uomini [...] un riferimento di Dio all'uomo?»[35] Forse sulle tracce di un recupero di questa 'sacralità' originaria, può diventare più facile l'ascolto, la comprensione e il dialogo tra le diverse esperienze storico-sacrali e anche tra le diverse religioni. Forse questo 'sacro' contemporaneamente così poco religioso e così aperto alla possibilità del divino, così secolare e così carico di mistero, può diventare il principio di risposta migliore agli interrogativi di questo tempo di povertà: nel rispetto dei limiti del pensiero, ma anche nel rispetto delle esigenze (e delle esperienze) che chiamano la ragione oltre la ragione stessa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] M. Heidegger, Wozu Dichter? in Holzwege, Klostermann, Frankfurt a. M. 19947, tr.it. Perché i poeti, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 250.

[2] E' noto come il termine, nato in ambito giuridico-politico, abbia preso 'spessore' in ambito filosofico e teologico a partire dalle considerazioni di K. Löwith, Meaning in History. The Thological Implications of a Philosophy of History, Univ. of Chicago Press, 1950, tr. it. Significato e fine della storia. Le implicazioni teologiche della filosofia della storia, Milano 1963 e di F. Gogarten, Verhängnis und Hoffnung der Neuzeit. Die Säkularisierung als theologisches Problem, Vorwerk, Stuttgart 1953, tr. it. Destino e speranza dell'epoca moderna. La secolarizzazione come problema teologico, Morcelliana, Brescia 1972. Per una breve storia del termine, cfr. J. Figl, Secolarizzazione, in Enciclopedia teologica, Queriniana, Brescia 1989, pp.  951-957. Per una panoramica sulle questioni sottese, cfr. A. J. Nijk, Secolarizzazione, Queriniana, Brescia 1986; in rapporto alla fede cfr. AA. VV., Le sfide del secolarismo e l'avvenire della fede, Atti del colloquio internazionale, Roma 30 nov.-2 dic. 1995, Urbaniana Univ. Pr., Roma 1996; per una sintesi sul versante dei risvolti teologici, R. L. Richard, Teologia della secolarizzazione, Queriniana, Brescia 1970. Sul rapporto tra 'secolarizzazione e ritorno del sacro', cfr. invece «Filosofia e teologia», IX (1995), 3; cfr. anche il n. VI (1992), 3 (Religione e sacro tra moderno e post-moderno).

[3] Per rimanere in Italia possiamo ricordare almeno: G. Colzani - P. Giustiniani - E. Salmann, Le ragioni della fede, Piemme, Casale Monferrato 1997; C. M. Martini - U. Eco, In che cosa crede chi non crede?, Liberal, Firenze 1996; M. Cacciari - G. Giorello - V. Vitiello, Trinità per atei, Raffaello Cortina, Milano 1996. Tra i numeri monografici di «Filosofia e teologia», ricordiamo I (1987), 1; II (1988), 1-2. Ovviamente a questi testi si dovrebbero aggiungere tutte le discussioni avvenute sulle riviste filosofiche e teologiche a partire dalla pubblicazione dell'Enciclica Fides et ratio [ricordiamo in particolare la rivista «Micromega», a partire dal n. 5 (1998)].

[4] Pensiamo alle considerazioni sul 'sacro' in G. Bataille, ma anche - in Italia - ai particolari 'cristianesimi' di G. Vattimo e V. Vitiello.

[5] Il primo incontro si è tenuto all'Istituto universitario Suor Orsola Benincasa (Napoli 25-1-2001). La prima sessione (in mattinata), di carattere più metodologico (Teologia, filosofia, fenomenologia, ermeneutica, della rivelazione), ha previsto gli interventi di A. Ales Bello, E. Baccarini, F. Brezzi, P. Coda, G. Lorizio. Nella seconda sessione (pomeridiana), di carattere più scientifico-specialistico (Demo-antropologia, storia dell'arte, storia, della rivelazione) sono intervenuti invece F. Sfera, P. Mander, D. Scafoglio, A. Tomei, A. Paoletta. Il secondo incontro si è tenuto all'Università di Roma Tor-Vergata (Dipartimento di filosofia), il 15-3-2001, sul tema Rivelazione e monoteismo: Ebraismo - Cristianesimo - Islam, con interventi di B. Carucci, P. Gamberini, S. Hushmand (in mattinata sulla questione della rivelazione e nel pomeriggio sulla questione antropologica). Il terzo incontro (4-4-2001) si è tenuto all'Università degli studi Roma 3 (Dipartimento di filosofia), in mattinata con gli interventi di D. Conci, A. Fabris, G. Rocci, R. Cipriani, e il pomeriggio con quelli di M. Perroni e V. Spera. L'ultimo incontro è stato quello presso la Pontificia università Lateranense, Roma (Facoltà di filosofia), il 15-5-2001. In mattinata su L'autorità della rivelazione: fenomenologia, teologia, filosofia, diritto, con interventi di D. Conci,  M. Fuss, P. Giustiniani, G. Chiodi, G. Lorizio, e il pomeriggio su La rivelazione e le religioni del Vicino ed estremo Oriente: religioni mesopotamiche, del mondo biblico, induismo, buddhismo, taoismo, con interventi di P. Mander, P. Merlo, F. Sferra, J-S.M. Lee.

[6] Parlando del pluralismo delle tradizioni ed esperienze religiose, Coda ha sostenuto che la teologia cattolica ha (forse erroneamente) a lungo pensato che ci sia rivelazione solo nel cristianesimo; oggi una posizione del genere non è più sostenibile. Il concetto di rivelazione è analogo; si dice in molti modi. Certo, l'analogia 'principe' per il cristiano resta Cristo; ma dobbiamo ammettere una gradualità di 'presenza' rivelativa anche nelle altre esperienze religiose. Ovunque c'è autentica esperienza religiosa c'è il tocco di dio (e 'rivelazione' significa 'tocco di dio'). Su queste tematiche si può vedere anche P. Coda, Dio uno e trino. Rivelazione, esperienza e teologia di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000. Nonché AA. VV. (sempre a cura di P. Coda), L'unico e i molti. La salvezza in Gesù Cristo e le sfide le pluralismo, PUL-Mursia, Roma 1997.

[7] Il riferimento è ovviamente a R. Otto, Il Sacro, Feltrinelli, Milano 1989.

[8] Nei seminari, questo uso del termine è emerso in particolare nelle relazioni di Lorizio e Baccarini. Per quanto riguarda la posizione del teologo, possiamo rimandare anche ai suoi recenti lavori: G. Lorizio, Rivelazione cristiana - modernità - postmodernità, S. Paolo, Cinisiello Balsamo 1999; Id., Rivelazione cristiana e postmodernità, in «Lateranum», 66 (2000), pp. 323-340; Id., Rivelazione, in AA. VV. (a cura di G. Barbaglio, G. Bof, S. Dianich), Nuovissimo dizionario di teologia, S. Paolo, Cinisiello Balsamo 2000, pp. 1053-1097.

[9] Ci riferiamo in particolare alla fenomenologia della religione presentata nella relazione della Ales Bello. Là dove l'oggetto e la questione non è 'dio' in sé, ma il significato del divino nella sfera dell'interiorità (e dei suoi Erlebnisse), allora bisogna riconoscere che in tutte le religioni ed esperienze sacrali c'è una forma di 'realismo' hyletico, c'è un bisogno di concretezza, una 'incarnazione' della trascendenza nell'immanenza (nel sacerdote, nella statua, nella dea-bambina, ecc.). Questo realismo hyletico è appunto l'esperienza generale del Sacro, che - poi - storicamente possiamo distinguere in Sacro (elementare) e Religioso (sacro complesso). Per un approfondimento, rimandiamo a A. Ales Bello, Culture e religioni. Una lettura fenomenologica, Città nuova, Roma 1997; Id., Hyle, Body, Life: Phenomenological Archeology of the Sacraded, in «Analecta husserliana», LVII (1998).

[10] E' la posizione di Domenico Conci. Su di essa torneremo quando affronteremo la questione da punto di vista metodologico. Cfr. a riguardo D. Conci, Phenomenology as the Semiotics of Archaic or 'Different' Life Experiences. Toward an Analysis of the Sacred (con A. Ales Bello), in «Phenomenology Inquiry, XV (1991), pp. 106-128; Id., La terra che tu calpesti è santa, in AA. VV., Le forme del sacro (a cura di F. Brezzi), Anicia ed., Roma 1992, pp. 53-63.

[11] Cfr. D. Conci, Tra apparire e essere. Fenomenologia della natura come segno culturale occidentale, in AA. VV., Atti del convegno 'Filosofia della natura' (gennaio 1992), Herder-Univ. Lateranense, Roma 1993, pp. 315-326; Id., Tempo e spazio del sacro: un'analisi fenomenologica, in AA. VV., Husserl: oltre le scienze, verso il mondo della vita, Pro Civitate Christiana, Assisi 1988, pp. 123-139.

[12] E' la posizione di P. Coda. La rivelazione sacrale è un'esperienza propria dell'uomo (polo antropologico), nel suo essere toccato dal 'mistero' (polo teologico) e nel suo cercare una mediazione 'concreta' rispetto alla Trascendenza (polo 'materiale' o 'sacramentale'). Oltre ai testi di P. Coda già citati, possiamo ricordare Id., Teo-logia. La parola di Dio nella parola dell'uomo, Ed. Pontificia Univ. Lateranense, Roma 1997; Id., L'amore di Dio è più grande del nostro cuore. Il dialogo interreligioso, Piemme, Casale Monferrato 2000.

[13] Cfr. le relazioni di F. Sfera, P. Mander, M. Fuss, P. Merlo, J.-S. M. Lee.

[14] Stiamo facendo riferimento ai contenuti della relazione di B. Carucci, Rivelazione nell'Ebraismo. Volendo ricordare qualche 'classico' sulla rivelazione dal punto di vista ebraico, possiamo rimandare, in ambito filosofico, a J. A. Heschel, Dio alla ricerca dell'uomo, Borla, Roma 1983, in ambito esegetico a S. J. Sierra (a cura di), La lettura ebrica delle scritture, EDB, Bologna 1995; in ambito critico-teorico a G. Scholem, Concetti fondamentali dell'ebraismo, Marietti, Genova, 1995.

[15] In questo caso il riferimento è alla relazione di P. Gamberini, Rivelazione nel Cristianesimo. Il relatore, partendo dalla domanda: come parlare della rivelazione di Gesù post-olocausto? e cercando di recuperare la dimensione di Gesù-ebreo anche in ottica di dialogo interreligioso, ha proposto prima una rilettura della profezia ebraica (nel profeta si supera la 'tradizionale' visione del Dio-ebraico assolutamente trascendente, perché in lui in-abita la ruah: lo spirito di Dio parla in lui) e poi una rilettura della figura di Gesù come profeta escatologico. Nell'idea del 'pathos' profetico si può trovare e lanciare un ponte tra il Dio di Israele e il Dio di Gesù Cristo. E, se è vero che nel profeta ebraico non c'è mai identificazione totale tra uomo e dio, è vero anche che in Gesù Cristo le due nature non sono 'mescolate' e tanto meno è possibile identificare il suo essere-figlio con Dio-Padre. Ferme restando tutte le differenze tra Ebraismo e Cristianesimo, Gasperini conclude che da parte cattolica bisogna lavorare per mostrare come in Gesù viva in modo nuovo l'esperienza di Dio già presente nell'Antico Testamento. A riguardo, cfr. P. Gamberini, Ontologia di relazione e Cristologia, in AA. VV. (a cura di C. Greco), Cristologia ed antropologia, AVE, Roma 1994, pp. 196-225; Id., Gesù-persona dello Spirito, in «Rassegna di teologia», 40 (1999), pp. 201-228.

[16] Nel pomeriggio lo stesso Gamberini torna sul tema in prosepttiva antropologica e legge la 'persona' nell'ottica della relazione (come aveva fatto al mattino per la Trinità). Dopo aver tracciato il quadro generale (per cui - nella fenomenologia dell'incontro - c'è libertà solo nell'accoglienza dell'altro, e - se non siamo capaci di lasciar essere l'altro come altro - siamo condannati alla solitudine) e dopo aver mostrato questo quadro presente nell'uomo-Gesù (capace di amare perché l'Amato per eccellenza dal Padre), Gamberini passa all'esegesi di Mc, 10, 17-22, là dove il tentativo è di Gesù è appunto quello di far passare - attraverso un gioco di sguardi - il giovane ricco dall'essere «un 'tale'», un non soggetto, un uomo senza volto, all'essere 'persona' (amata-amante). Su questi temi, cfr. P. Gamberini, La comunicazione in prospettiva cristologica, in «Rassegna di teologia», 40 (1999), pp. 201-228.

[17] Il riferimento è alle relazioni di S. Hushmand e al suo tentativo di mostrare il Dio islamico come molto vicino a quello ebraico e cristiano. Per un approfondimento rimandiamo al testo di Hushmand (Esperienza di una teologa mussulmana), consultabile all'indirizzo http://www.geocities.com/Athens/9825/98g34_09.html

[18] Cfr. rispettivamente le relazioni di F. Sfera, P. Mander, D. Scafoglio, A. Tomei, A. Paoletta, R. Cipriani, V. Spera, G. Chiodi.

[19] Il riferimento è qui alla relazione di G. Rocci, Il sacro archetipale, che ha mostrato dal punto di vista psicanalitico-junghiano come il 'sacro' possa essere inteso anche come un archetipo, una forma simbolica radicata negli strati più profondi della psiche (forza che attrae-respinge; esperienza limite non de-finibile, richiamo verso una totalità di senso che sfugge; l'Assolutamente altro). Cfr. a riguardo anche G. Rocci, C.G. Jung e il suo Dàimon. Filosofia e psicologia analitica, Bulzoni, Roma 1994.

[20] Anche la storia della filosofia, in quest'ottica diventa scienza disciplinare. Pensiamo alla ricca relazione di P. Giustiniani, che nella sua ricognizione sul concetto di rivelazione nella filosofia criticista e idealista, non è certo entrata in contrasto con le altre posizioni filosofico-teoretiche.

[21] La posizione della teologia fondamentale cattolica nei seminari è stata sostenuta da G. Lorizio. Cfr. a riguardo Id., Pluralità e unità del sapere: l'esperienza religiosa in prospettiva teologico-fondamentale, in AA. VV. (a cura di G. Lorizio), Religione e religioni. Metodologia e prospettive ermeneutiche, Messaggero, Padova 1998, pp. 5-36; Id., Una prospettiva teologico-fondamentale, in AA. VV. (a cura di P. Coda e R. Presilla), Interpretazioni del reale. Teologia, filosofia e scienze in dialogo, PUL-Mursia, Roma 2000, pp. 27-55.

[22] Una nota a sé a rappresentato la relazione di M. Perroni, La rivelazione. Parola di Dio, parola di donne, nel suo sottolineare il contrasto tra il modo 'femminile' di pensare la rivelazione (modo che la Perroni chiama 'laico' nel senso più radicale del termine: esterno alla ministerialità sacerdotale) e il modo maschile-sacrale-sacerdotale.

[23] A proposito sono stati chiari tutti i 'teologi' e studiosi della religione presenti nei seminari (indipendentemente dalla 'fede' professata). Ricordiamo, per tutti, l'espressione plastica di Gamberini: ti amo perché sei diverso da me e non perchè mi sei simile. Comprendere l'altro nel suo orizzonte senza pretendere di ridurlo a noi, non può significare che che tutte le strade portano a dio; se tutto è rivelazione, niente lo è.

[24] Cfr. a riguardo D. Conci, Introduzione ad un'epistemologia non fondante, in «Epistemologia», V (1982), 1, pp. 3-17; Id., L'universo artificiale. Per un'epistemologia fenomenologica, M. Sapda ed., Roma 1978 e, prima ancora, Id., La conclusione della filosofia categoriale. Contributi ad una fenomenologia del metodo fenomenologico, Ed. Abete, Roma 1967.

[25] In particolare, nella prima sessione del primo incontro, a livello metodologico questa posizione è stata sostenuta da F. Brezzi, ma - in parte - anche da Baccarini. Ermeneutica, in questo caso, indica un modo di intedere e praticare la filosofia, modo che va sostenuto e veicolato soprattutto quando l'oggetto in questione è la religione (filosofia della religione). In questo caso lo spazio ermeneutico-filosofico diventa lo spazio in cui la religione può essere pensata, messa in discussione nei suoi fondamenti. Della Brezzi possiamo ricordare Inquieta limina. Tra filosofia e religione, 1992; oltre al già cit. AA. VV. (a cura di F. Brezzi), Le forme del Sacro.

[26] Nell'impostazione ermeneutica, per riprendere le parole della Brezzi, il punto di partenza non è l'uomo, ma Qualcosa che è già là e si rivela. La rivelazione (o, forse, meglio con Heidegger potremmo dire: la manifestatività) è svelamento di un Orizzonte che precede il singolo esistente. Proprio per la generalità e ontologicità di questa visione (per certi versi anti-antropocentrica, per altri versi assolutamente umanistica, in quanto solo l'uomo è capace di cogliere questa manifestatività) è possibile - a detta della Brezzi - che in essa si incontrino tanto la tradizione greca (la verità come aletheia, come svelamento) quanto quella ebraica (la parola-verità, dabar, come evento, avvenimento, storia): l'incontro avviene proprio nel riconoscimento di un'Antecedenza meta-umana, e nell'atteggiamento che questo Dono antecedente suscita (o può suscitare): di inquieto stupore, di pensosa gratitudine. Torneremo nel finale di questo nostro lavoro sulla posizione ermeneutica, approfondendo questi spunti della Brezzi in direzione heideggeriana.

[27] Su questa scia, dicevamo, va anche al relazione di Baccarini, Dall'ontologia dell'identità alla dialogica della differenza. La rivelazione non è un fatto, o un concetto, ma un evento, una dinamica; esce dalla logica dell'essenza (del ti esti), perché il suo topos, tanto nel quo ad nos (segno di una differenza originaria) tanto nel quo ad se (identità che non ammette differenze), non può essere determinato. Soggetto e oggetto della rivelazione sono lo 'stesso' e non sono l'uomo. A livello religioso, questo significa che l'uomo non dà significato alla creazione, ma lo scopre e la sua risposta può essere solo una risposta-ascolto. Al Dio parlante deve corrispondere un parlante che è ascoltante. Il monoteismo diventa allora una constatazione necessaria. Non ci sono più soggetti che si rivelano, ma la Rivelazione si rivela. I diversi nomi di Dio sono i nomi che noi diamo allo stesso Soggetto (solo così si può superare anche la lotta tra i fondamentalismi). Di Baccarini, su queste tematiche, ricordiamo (oltre ai diversi contributi presenti nella rivista telematica di filosofia «Dialeghestai»), La persona e i suoi volti. Etica e antropologia, Anicia, Roma 1996; Id., La passione del filosofo: pensare l'originario, in AA. VV. (a cura di E. Baccarini), Passione dell'originario. Fenomenologia ed ermeneutica dell'esperienza religiosa, Ed Studium, Roma 2000, pp. 12-26.

[28] Pensiamo, per esempio, già alla classica posizione di M. Weber.

[29] In questa direzione ci sembra che vada anche la posizione di E. Mazzarella (intervenuto fuori programma nella prima sessione al Suor Orsola). Il Sacro (a differenza del Santo, che richiede il salto della fede) diventa in questo senso un richiamo alla finitezza propria dell'uomo e alla necessità del rispetto dell'altro. Cfr. E. Mazzarella, Pensare e credere. Tre scritti cristiani, Morcelliana, Brescia 1999; Id., Sacralità e vita. Quale etica per la bioetica?, Guida, Napoli 1998. In parte in dialogo proprio con quest'ultimo testo di Mazzarella (in particolare per gli aspetti etici della questione) e in parte sulla scia di Heidegger e Jonas, ricordiamo anche la posizione di F. De Natale, Ethos/Bios. Ricerca della verità e rispetto della vita, in Id., Tra ethos e oikos. Studi su Husserl, Heidegger e Jonas, Palomar, Bari 2001, pp. 153-171.

[30] Così anche Coda: l'orizzonte verso cui tendiamo è comune; l'uomo che ricerca è sempre uomo; proprio per questo possiamo sperare di tendere sempre più alla verità. Le diverse esperienze religiose, proprio perché fanno tutte parte della grande esperienza del mistero,  possono dialogare, ascoltarsi, capirsi.

[31] Un'eccezione (e non solo da questo punto di vista) è rappresentata dalla relazione di A. Fabris, Le metamorfosi della rivelazione. Il relatore, affrontando la categoria della 'rivelazione', è partito infatti dal concetto ebraico-cristiano (e cioè dalla dimensione 'acustico'-linguistica del dato rivelato: Dio parla, il fedele ascolta) ed è approdato poi al concetto heideggeriano di manifestatività. Analizzando la differenza che lo Heidegger di Essere e tempo (§ 7) pone tra fenomeno, apparire e sembrare, Fabris ha mostrato come lo spostamento dall'ambito acustico a quello visivo possa approdare (nonostante gli sforzi heideggeriani) al rischio della riduzione del fenomeno a ciò che appare, rischio diventato realtà nel nostro tempo, epoca della rivelazione compiuta. Lasciando quindi alle spalle Heidegger, Fabris ha analizzato quest'«epoca del mondo come immagine», a partire da quattro dimensioni: (a) spettacolarizzazione (e ricerca spasmodica del 'nuovo', che contemporaneamente rassicura nella sua superficialità e spaventa nella sua mancanza di fondamento); (b) metamorfosi dello sguardo (dalla teoria alla curiositas); (c) mutato rapporto rappresentazione/realtà (come è evidente nella realtà virtuale); (d) risignificazione di nozioni come linguaggio e tempo (dal tempo sequenziale a quello simultaneo; dal linguaggio-sonoro a quello linguaggio visivo e televisivo). Cfr. di Fabris, Linguaggio della rivelazione, Marietti, Genova 1991; ma anche, più in generale, Introduzione alla filosofia della religione, Laterza, Roma-Bari 1996.

[32] Ci permettiamo per questo di rimandare ai nostri Linguaggio poetico e linguaggio del pensiero in M. Heidegger, in AA. VV. (a cura di F. De Natale), Forme di scrittura filosofica. Elementi di teoria e di didattica, F. Angeli, Milano 2001, pp. 84-114; Nella svolta. 'Meditazione' e 'Uno sguardo indietro sulla via' (1937-1938), in A. Caputo, Terra incontaminata. Percorsi di ricerca nella filosofia di M. Heidegger, Levante, Bari 1999, pp. 115-162. Mentre, per un rimando bibliografico più completo, cfr. il nostro Vent'anni di recezione heideggeriana (1979-1999), F. Angeli (Collana di filosofia), Milano 2001.

[33] 'Wie wenn am Feiertage...', in Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, GA. Bd. 4, tr. it. 'Come quando al dì di festa' in La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano, 1988, p. 73.

[34] M. Heidegger, Nachwort zu: Was ist Metaphysik?, in Wegmarken, Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a.M., Bd. 9, tr. it. Poscritto a: 'Che cos'è metafisica?', in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p. 261.

[35] Id., Brief über den Humanismus, in Wegmarken, cit., tr.it. Lettera sull'umanismo, p. 303. Su questa concezione del Sacro in Heidegger, ci permettiamo di rinviare alla nostra tesi di dottorato (Heidegger e le tonalità emotive fondamentali), la cui prima parte è stata pubblicata per la Franco Angeli con il titolo Pensiero e affettività. Heidegger e le 'Stimmungen' (1889-1928), Milano 2001; mentre la seconda parte è in via di pubblicazione.

 

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