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Va ribadito, qui, in via preliminare, qualcosa che è, ormai, una banalità epistemologica: non esistono "dati neutri" o documentazioni di fenomeni, effettuate "come dal buco di una serratura", "come se il rilevatore non ci fosse". Ciò vale, beninteso, anche per il fenomenologo. L'oggettività di un discorso cognitivo, del resto, non ha più a che vedere con simili pretese veteropositivistiche, con le quali, sovente, viene ancora spesso occultamente associata: "oggettività come neutralità". Ma questo non significa in alcun modo, come riteneva F. Nietzsche, che non esistano fatti, ma solo "interpretazioni". La contraddittoria assolutezza di un tale assunto relativistico può essere rimossa solo formalmente, quando si precisa che anch'esso è, in effetti, solo un'interpretazione. non, certo, anche sostanzialmente, perché tale enunciato è, in realtà, una impegnativa affermazione ontologica, perché pretende di attestare "un in sè" concernente la nostra relazione cognitiva con il mondo. Dice come stanno effettivamente le cose tra noi ed esso, quindi qualcosa che, in mancanza di una rivelazione, non può essere umanamente detto.

Ma la fine dell'illusione nell'esistenza di dati neutri, in sede cognitiva, non si limita a cancellare l'epistemologia positivistica, ma solleva anche numerosi problemi, prima invisibili, che sono di notevole rilievo metodologico e, più ampiamente, antropologico, e che non sono di facile soluzione. Se, infatti, i dati sono sempre "imbevuti di ipotesi", la scoperta di una attività intenzionale che proietti permanentemente sensi sui dati, rivestendoli con "vestiti di idee", espone l'attività cognitiva umana a possibili, invisibili, mistificazioni, in particolare quando tale attività proiettiva agisce inconsapevolmente. E tutte le strutture fondamentali di senso di un sistema culturale, considerate dalle comunità indigene assolute ed esclusive, vengono necessariamente proiettate, lo si voglia e lo si sappia o no, dappertutto. Scaraventati, come siamo, all'interno del mondo e della cultura, non possiamo evadere da tale invalicabile recinto, per sottrarci come ad un non voluto incantamento che ci possiede da sempre, e andare a guardare "dall'esterno", per così dire, come noi siamo effettivamente messi con la totalità ambientale e culturale che ci circonda. Così, quello che io chiamo "il dilemma di T. Kuhn" - se, cioè, Aristotele e Galilei, guardando oscillare una pietra appesa al soffitto mediante una corda, vedevano la stessa cosa, ma l'interpretavano diversamente, il primo come dei vani tentativi di raggiungere il proprio luogo naturale (il basso) da parte di un grave costretto ad un moto vincolato, il secondo come una oscillazione isocrona, cioè un pendolo, oppure vedevano cose del tutto diverse - non sarà mai decidibile in alcun modo senza evadere dalla condizione esistenziale surriferita. La scienza occidentale, per altro, cosciente di non godere di fondamento assoluto alcuno, procede di fatto indefinitamente, fin dalle più remote origini, nell'impresa di costituire e di distinguere, di fronte al caos della molteplicità manifestativa, ciò che pertiene a noi, come soggetti, e ciò che pertiene alle cose, come oggetti.

È lecito almeno attendersi, in linea generale, che un'informazione sia, in prima e approssimativa istanza, quanto più possibile reale e non fantasiosa. Da sola, però, se pure significa qualcosa, significa veramente poco. Diventerà significante e, soprattutto, oggettivamente significante, solo e sempre nel contesto sintattico, semantico e pragmatico di una teoria strutturata in un corpus di ipotesi di partenza, di condizioni iniziali e di deduzioni, di cui l'informazione d'arrivo alimenta la portata empirica, se tale teoria sarà corroborata dai relativi tests di controllo mirati. Come dire: è sempre un'intera teoria con il suo bagaglio di informazioni ad essere oggettiva o no, e tale attributo è goduto da essa solo dopo ripetuti controlli corroboranti.

Nella cultura occidentale, quindi, ha valore cognitivo autentico ed eminente l'oggettivo e non il reale. O meglio, la realtà di ciò che appare è attestabile ed è fondabile solo mediante l'oggettivo, perché nella nostra cultura è l'oggettivo a dare il reale, cioè la credenza in questo, e non il contrario, come accade, invece, nelle culture prescientifiche, ove l'apparire non è fenomenico, ma rivelativo, perché coincide con la realtà stessa. La verità, in questo caso, è il precipitato di un'attività costruttiva oggettiva e non è l'esito di una rivelazione. A conti fatti, l'elettrone esiste solo come precipitato metodologico oggettivo di una teoria che ne parla, se essa ha superato felicemente severi controlli sperimentali. Ma questo breve excursus epistemologico, che si riferisce eminentemente al modello cognitivo delle scienze "dure", è del tutto marginale per le scienze umane e, a maggior ragione, per l'analisi fenomenologica : elimina, tuttavia, un possibile equivoco epistemologico ed operatorio e poi, dopo tali precisazioni, evidenzia indirettamente che l'analisi fenomenologica si muove lungo vettori metodologici estranei ed alternativi a quelli usuali.

 

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