Domenico Antonino Conci
LE
SOGLIE DEL CIELO
Per
un’ermeneutica fenomenologica
“Alzo gli occhi verso i monti: da dove
mi verrà l’aiuto ?”1 Questi strani versetti, appartenenti ad un Canto
delle ascensioni, intonato probabilmente dai pellegrini in cammino
verso Gerusalemme, e raccolto insieme agli altri salmi nel salterio,
cioè nel libro dei canti del Tempio e delle
sinagoghe, sogliono intendersi come formule devozionali dal simbolismo
stereotipato, ricorrenti, insieme con altre similari, più o meno frequentemente,
nella cosiddetta lirica religiosa ebraica esilica e postesilica. Del
resto, la riduzione ermeneutica alla figura della metafora e del simbolo
delle più ardue stravaganze etniche in cui ci s’imbatte, che vengono
in tal modo sbrigativamente devolute all’innocuo ed evasivo universo
della poetica e della retorica è, com’è noto, un espediente ampiamente
praticato in Occidente da una scienza demo-etno-antropologica
tesa a placare, prima possibile, il puntuale, irresistibile e malcelato
disagio indotto sempre dall’alterità etnica, in particolare, poi,
da quella sacrale, sempre più enigmatica a causa della secolarizzazione,
piuttosto che a scovare con fatica e con coraggio, nuotando nella
stravaganza, “le vere ragioni degli altri”. Ma, se è indubbio che
un’interpretazione letterale e propria del luogo in questione non
consente di comprendere come una montagna in quanto tale, cioè come mera entità geologica, possa essere invocata a fini
salvifici, è tuttavia altrettanto ovvio che l’opposta lezione del
“come se”, che dissolve tutto nel retorico e nell’estetico, non è,
tuttavia, in grado di spiegare come un tropo possa soccorrere cose
e persone, sottraendole, di fatto, alle distruzioni e alle tribolazioni
in cui versano. Nelle culture a fondamento sacrale, queste abbisognano
non già di “metafore felici”, ma della presenza reale ed efficace,
quindi letterale e propria, di figure potenti salvifiche che, invocate
cerimonialmente nei riti piccoli e grandi perché intervengano appena
possibile, devono, di fatto, irrompere, per così dire, “in carne ed
ossa”, se decidono di farlo, proprio negli spazi e nei tempi abitati
quotidianamente dagli uomini. Non sembra, allora, possibile alcun
apprezzabile progresso interpretativo con un’ermeneutica tradizionale,
articolata nella lettera o nel tropo, mentre è frattanto emersa, qui,
di norma ignorata e inattesa2, un’incompatibilità singolare tra il dominio dell’estetico
e quello del Sacro, che, in ogni modo, dovrebbe essere investigata,
prima o poi, fino in fondo, impiegando metodiche
adeguate al caso in questione. Queste, a mio avviso, dovrebbero appellarsi
alla tecnica analitica di un’antropologia fenomenologica d’indole
contrastiva.3 In verità, tale particolarità metodologica
vale in generale per qualunque analitica di stile postmoderno, sensibile
al principio critico radicale secondo cui, di fronte ad un’interpretazione
qualsivoglia, piuttosto che procedere direttamente alla valutazione
dei dati, occorre prendere coscienza e valutare piuttosto e anzitutto
la prospettiva metodologica, storica, ideologica dell’analista o dell’interprete.
Nelle cosiddette scienze umane, poi, e, in particolare, nelle scienze
demo-etno-antropologiche, dove si ricerca il senso delle ragioni degli
altri, tale prescrizione metodologica dovrebbe essere spinta a livelli
di massima profondità e, soprattutto, in direzione autoreferenziale,
onde evitare che l’antropologo culturale valuti
il senso degli altri proiettando su di loro – lo voglia o no - il
senso di casa propria, seguendo, in ogni modo, un comportamento del
tutto fisiologico da parte di ogni indigeno messo di fronte a qualunque
cultura che gli è aliena. Così, per aggirare l’ostacolo rappresentato
dall’impossibilità di evadere dalla propria cultura, è consigliabile
ed auspicabile che l’interprete sospenda ogni credenza, per altro
divenuta poco sostenibile, nell’assolutezza e nell’esclusività dei
principi e delle categorie fondanti la cultura d’appartenenza e, in
tal modo, senza più proiettarli su quelli degli altri, come suole
farsi quando li si ritiene ovvi, li accosti semplicemente ad essi
per poterli così saggiare, soppesandoli insieme, poi, senza presupporre
identità o analogie di sorta, valutando in prima istanza per contrasto
le ragioni degli altri alla luce di quelle nostre e viceversa. Gli aspetti e le funzioni dei rilievi
montuosi nei deserti e nelle steppe dell’Oriente vicino e lontano
sono troppo noti e diffusi, anche presso i non specialisti, perché
ci si debba soffermare a giustificare la debole eco di remotissimi
culti montani che, dopo aver traversato i millenni, ancora risuona
nel nostro salterio, permanendo nei cuori e nelle menti di un popolo
devoto divenuto da tempo estraneo a tutto ciò, perché ormai da tempo
sradicato, sedentario e cittadino. L’archeologo, l’epigrafista, il
filologo e lo storico della Terra Santa sono tutti ragionevolmente
indaffarati a perseguire, di là dalla pesante ideologia biblica4
, la plausibilità oggettiva o meno di importanti eventi biblici
come, ad esempio, quello delle supposte origini meridionali di Yahweh
lungo il filo delle antichissime tradizioni eneolitiche di tribù nomadi
o seminomadi transumanti, accampati ai piedi dei loro santuari montani
in quel territorio “rarefatto”tra l’umida terra d’Egitto e la Palestina
ove “scorrono latte e miele”, a ridosso di quell’epocale crisi di
transito dal Tardo Bronzo all’Età del Ferro che, in un’area tanto
vasta da comprendere l’intero Mediterraneo Antico Orientale – segnalata
come la più culturalmente ibridata in assoluto del pianeta – avrebbe,
poi, assistito alla nascita del cosiddetto monoteismo e, poco distante,
sarebbe maturato quel tipo inaudito di cultura qualificata come “occidentale”,
cioè “non più orientale”. Più convincente, in ogni modo, appare agli
scienziati, almeno nelle attuali condizioni delle ricerche scientifiche,
la tesi dell’indole tardiva
e “mitica” del racconto delle origini pastorali d’Israele, proiettato
per ragioni ideologiche in un remoto passato e immaginato a rianimare
e a risignificare, sia pure con qualche referente reale, il tempo
d’oro di tribù nomadiche e seminomadiche che vivevano ancora nelle
tende, faticosamente fedeli ad un Dio celeste lento nell’ira e rapido
nel perdono, aniconicamente presente in quel celebre Tabernacolo mobile
che soleva precedere le tribù in marcia per guidarle e per proteggerle
durante i loro lunghi e di solito pericolosi spostamenti. Un mito, dunque, nient’altro
che un mito, allora, sarebbe la grandiosa narrazione dell’Esodo, e,
di certo, non solo questa. L’intera Bibbia, in tal caso, alla
luce implacabile di una pur legittima e doverosa operazione archeologica
e storiografica, in linea con un collaudato razionalismo scientifico
che non escluderebbe, comunque, la presenza
nelle narrazioni di alcuni nuclei di realtà ”naturale” e “storica”,
si risolverebbe inevitabilmente in un centone di racconti mitici,
in gran parte inventati in epoca esilica e postesilica e proiettati,
quindi, in un remoto e nebuloso passato per fondare, legittimare e
celebrare l’etnogenesi miracolosa di un piccolo popolo circondato
da imperi invero troppo potenti, che, del resto, per ingenuità o per
dolo, li avrebbe vissuti e intesi, in ogni modo, come il racconto
autentico delle proprie origini. Certo, la Bibbia è notoriamente un
libro sacro, importante al punto da costituire addirittura la pietra
angolare delle tre grandi religioni abramitiche, quelle monoteistiche.
Ma la sua suprema sacralità, beninteso, non risiede in alcun modo
nell’indole più o meno mirabolante dei contenuti testuali ivi espressi,
che, ad onor del vero, difficilmente potrebbero essere distinti dai
comuni soggetti delle favole e delle saghe di cui è pieno l’universo
delle culture di tutti i tempi, ma dalla natura particolarissima del
contesto che ha vissuto, inteso e tramandato
la Bibbia come opera rivelata da Dio e non come frutto della libera
invenzione dell’ingegno umano. È, questo, un tema che, essendo dato
per scontato e, quindi, per ovvio, non è, ormai, più pensato fino
in fondo, specialmente in rapporto con l’universo non
rivelativo, egemone in Occidente,costituito
dalle manifestazioni fenomeniche, diventando, in tal modo, un
argomento desueto e, persino, trascurato, mentre, come si vedrà, costituisce
per la fenomenologia un motivo di tale rilevanza epistemologica da
imporre, una volta ripreso in tutta serietà e sottoposto ad un’adeguata
analisi, la revisione non solo dell’universo delle manifestazioni
in generale, ma anche di alcuni aspetti del metodo fenomenologico
medesimo. L’ibridismo culturale tra l’ellenismo
e il semitismo, in altre parole tra un logos
privo di avalli rivelativi di sorta che ha
elaborato principi e categorie funzionali all’ordinamento e alla descrizione
dei dati fenomenici, onde surrogare, in tal modo, l’iniziale crisi
della cultura mitico-rituale antica, occorsa durante l’Età del Ferro
nel Mediterraneo Orientale, ed un pensiero basato, invece, sulle Sacre
Scritture e sulla Tradizione e quindi su dati indiscutibilmente rivelativi,
ha indotto l’Occidente cristiano ad escogitare la nota distinzione
tra la conoscenza della ragione umana (cosiddetta “naturale”) e quella
peculiare della fede5, generando, in tal modo, di necessità, scissioni, disarmonie
e conflitti che, nonostante gli sforzi reiterati, ormai millenari,
da parte della Chiesa, non si sono mai placati nell’armonia fondamentale,
nella desiderata reductio ad unum della conoscenza filosofica
e scientifica con quella della fede.6 Esiste, tuttavia, un noto tema verso il quale la
“sapienza dei Gentili” e quella semitica, la ragione cosiddetta naturale
della filosofia e della scienza e quella della fede nella Rivelazione
e della Chiesa convergono risolutamente. Alludo alla mitofobia che,
come si vedrà, li accomuna intimamente, sebbene tale ideologia ormai
ultramillenaria si sia generata e si sia consolidata in Occidente
alimentandosi da fattori culturali alquanto eterogenei. Un Dio geloso
e talmente esclusivo da presentarsi come unico e come veramente vivente
gestisce un piccolo popolo costretto a sopravvivere in un’area politeistica
segnata per secoli dai più imponenti ibridismi etnici e cultuali del
nostro pianeta, a ridosso dei primi imperi del mondo allora conosciuto,
e un inaudito protoilluminismo razionale, critico e creativo, nato
nelle poleis delle colonie e della Madrepatria elleniche come logos surrogatorio del sistema mitico-rituale
entrato in una crisi di senso non voluta, hanno
mistificato del tutto le rivelazioni
degli altri, quelli del Vecchio Mondo e dei Nuovi, sfigurandole nel mero mondo di racconti inverosimili, in un’accozzaglia
di favole in libertà, “che possiamo immaginare come mera invenzione
poetica o come una verità deformata di un sistema filosofico o teologico
sgangherato”7, bollandoli con un termine semanticamente tanto
malsicuro quanto immarcescibile, cioè come “mythoi”,
e qualificando, poi, i riti corrispondenti che, come dròmena,
riattivavano i miti, quali comportamenti “superstiziosi” e “magici”degni
solo dell’ignorante credulità popolare. Resta, ovviamente, un mistero
antropologico come sia stata possibile la
sopravvivenza fisica e psichica, per decine di migliaia di anni, di
comunità umane in balìa di storielle inventate di sana pianta e tuttavia
ritenute scioccamente cogenti e non gratuite, ridicolmente vissute
nei rituali come efficaci e non del tutto vane. Solo un’analisi fenomenologica radicale
che, tematizzando l’universo generale delle manifestazioni, scopre,
anzitutto, l’importante differenza fenomenologica tra il fenomeno
e la rivelazione, invisibile di norma alle analitiche extrafenomenologiche,
può portare alla luce la loro inaudita alterità reciproca, relativa
ai dati e alle strutture di senso (spazio, tempo, logica)8 di cui essi sono costituiti, sollevando, in tal
modo, seri dubbi sulla plausibilità di alcune
convinzioni fondamentali, divenute da tempo veri e propri luoghi comuni,
che operano nascostamente alle radici della problematica in esame.
È smentita, anzitutto, la nota sinonimia occidentale
tra rivelazione e rivelazione sacrale, ove il termine “rivelazione”
che, usualmente appare vergato con l’iniziale maiuscola, intende
essenzialmente le Sacre Scritture e nient’altro.9 Per la fenomenologia, infatti, il dato rivelativo
– a differenza del dato fenomenico che implica sempre il vissuto di
una coscienza egocentrata, relativamente libera di pensare e di agire
- è rinvenibile allo stato originario solo nei vissuti di una coscienza
impersonale, cioè priva dell’io, che, stando in postura rivelativa,
vive e pensa se stessa e il mondo nella disponibilità a priori di
poter ricevere senso ed esistenza solo ed unicamente da qualcosa collocata
di là da se medesima. Nulla di sacrale, quindi, trovasi implicito
nella manifestazione rivelativa in quanto tale che si schiude all’analisi
fenomenologica come un generalissimo modo teorico-pratico di stare
al mondo da parte dell’uomo, implicante il vissuto elementare dell’impotenza
di homo, protrattosi in maniera esclusiva
per decine di millenni, almeno fino alla crisi iniziale di tale postura
nell’area del Mediterraneo Antico Orientale, durante l’avvio della
prima Età del Ferro. L’avvento della manifestazione fenomenica10 in tale transito culturale segnerà subito e definitivamente
quelle origini dell’Occidente che inaugureranno e demarcheranno per
l’uomo un modo di stare al mondo e di intenderlo d’indole incommensurabile
rispetto a qualunque altro e precedente statuto antropologico. Sebbene, ora, lo stato rivelativo non sia per
la fenomenologia la condizione sufficiente perché il Sacro si manifesti,
esso costituisce, tuttavia, la condizione necessaria di
ogni possibile manifestazione potente, cioè sacrale, perché
l’appello generale al Sacro sorge necessariamente da quel particolare
stato d’impotenza proprio del vissuto di una coscienza impersonale,
una condizione del tutto assente nei vissuti egocentrati delle manifestazioni
fenomeniche. La condizione essenzialmente insatura del dato fenomenico,
infatti, è destinata ad alterare e a snaturare profondamente il rapporto
originario tra l’uomo e la datità sacrale, che resta ambiguamente
assunto e pericolosamente coinvolto – lo si voglia o no - in problematiche affini a quelle di norma
rinvenibili nella gnoseologia e nell’epistemologia del pensiero profano
d’Occidente. La comparsa di una coscienza egocentrata, infatti, innesta
inevitabilmente un attivismo cognitivo ed esistenziale d’obbiettivazione
a partire dal soggetto, che è profondamente estraneo alla coscienza
che vive e pensa in postura rivelativa. La polarità dell’io nel vissuto
oggettivante, con cui l’Occidente ha dovuto allestire un’area di libertà
e d’autonomia all’interno dell’universo immanente della coscienza
intenzionale per poter svolgere le necessarie e complesse operazioni
volte alla saturazione generale del carente universo fenomenico, confligge
intimamente con il nocciolo cratofanico di qualunque ierofania perché
è proprio l’intrinseca potenza assoluta ed imperialistica caratterizzante
il Sacro a ritrovarsi in tal modo inevitabilmente
ridimensionata, marginalizzata, quindi depotenziata, se si
rapporta con la coscienza personale dell’Occidente che non è funzionalmente
votata alla postura rivelativa. Come già notato, la manifestazione
rivelativa per potersi dare in modalità integralmente sature e occupare,
senza resti, la totalità di una coscienza con datità ontologicamente
iperreali11, cioè prive di rinvii di sorta verso orizzonti
“trascendenti”, proiettati al di là e/o di là dal campo manifestativo,
esige una coscienza in postura rivelativa priva della polarizzazione
soggetto-oggetto.12 È, allora, evidente che mentre per una
coscienza in postura fenomenica la presenza di fattori specifici rende
necessaria e addirittura urgente l’emergere di un’ideologia della
libertà, per quella in postura rivelativa una tale ideologia sarebbe
immotivata, gratuita e, in definitiva, del tutto incomprensibile.
In entrambe le posture, comunque, la fenomenologia scopre l’esistenza di stati intenzionali
costrittivi fondamentali, anche là dove la cultura occidentale ha
supposto la possibilità trascendentale di scelte libere e consapevoli.
Ma, se tale dinamismo generale dovrebbe essenzialmente riscontrarsi
solo a carico di un soggetto di fronte ad un plesso di manifestazioni
fenomeniche da saturare necessariamente, non ha per la fenomenologia
alcun motivo essenziale, ma solo fattuale, dovuto, cioè,
ad ibridismi culturali noti, l’idea che in un contesto palesemente
rivelativo d’indole sacrale, fonte di verità e verità esso stesso,
l’uomo dovrebbe donare con la fede il suo assenso o negarlo con il
suo dissenso alle testimonianze divine.13 Ma se è vero che “se si toglie l’assenso, si toglie
la fede, perché senza l’assenso non si crede affatto”14, come riteneva S. Agostino, è lecito domandarsi
come sia possibile che in universi culturali a fondamento sacrale
ove lo statuto di senso e d’esistenza dipendono totalmente dalla presenza
salvifica quotidiana del Sacro nel mondo profano, e la coscienza vive
e pensa stando “abbandonata” in postura rivelativa, ci siano le condizioni
elementari per una scelta libera e consapevole da parte di singoli
di dare o negare l’assenso (fede) ai contenuti della rivelazione sacrale.
Nei sistemi mitico-rituali i cui vissuti
sono coscienze intenzionali in postura rivelativa, privi di ego, per
le quali i pensieri, i sentimenti e le volizioni sono intese e vissute
non come atti di un io, ma solo e sempre come imposti o elargiti da
entità estranee alla coscienza, non sussiste spazio esistenziale alcuno
in cui la pistis, che è inequivocabilmente soggettiva e resta relata al mondo
delle sensazioni, secondo il noto schema platonico, possa ritagliarsi
un ruolo autonomo e svolgere attività indipendente nei confronti dei
dati rivelativi sacrali che, come si vedrà, sfuggono per la fenomenologia
alla polarità aisthetòn-noetòn. Essa, in definitiva,
è sempre una qualità dell’uomo, cioè delle
sue parole e delle sue azioni, e non è mai qualcosa che si riferisce
ad un attributo di Dio.15 Pertanto, solo la condizione satura di principio
del dato rivelativo e, quindi, la sua iperrealità, presenta quelle
condizioni di affidabilità cognitive ed esistenziali di base affinché
il Sacro, possa, se vuole, manifestarsi a pieno titolo come esibizione
potente, elargendo, quale cratofania, all’uomo e al mondo ciò di cui
essi, in quanto profani, cioè, impotenti, sono privi, vale a dire
l’esistenza e il senso. È, conclusivamente, evidente, allora, che
temi soggettivi quali la teoria dell’assenso e della fede, insieme
alla dottrina dell’intellectus fidei16, tutti esiti di noti ibridismi culturali, nel clima
tipicamente occidentale della riduzione fenomenistica della manifestazione,
nel senso fenomenologico già chiarito, sono tutti fatalmente destinati
a ridurre e ad indebolire il peso semantico della dimensione rivelativa
al punto da smarrire progressivamente la differenza fondamentale che
pure esiste tra questa e l’universo fenomenico, tra la rivelazione
profana17 e quella sacrale e l’indole necessaria sebbene
non sufficiente della manifestazione rivelativa per qualunque ierofania
come manifestazione potente.18 Abbandonando, ora, i rilievi fenomenologici
di base, esposti, di necessità, molto sinteticamente, è possibile procedere ora verso analisi specifiche sul tema
in questione, tirando tutte le possibili conseguenze da quanto fenomenologicamente
è frattanto via via emerso. Tutte le rivelazioni potenti (nel senso
fenomenologico chiarito), quindi quelle sacre e non profane, con qualsivoglia
supporto materiale esse siano veicolate –
narrate, cantate, danzate, figurate, scritte etc. che siano – possono
essere denominate “mythoi”,
nonostante la grave equivocità semantica del pur insostituibile termine
greco, precisando, intanto, che tutte le religioni si sono basate
e si baseranno sempre e necessariamente su rivelazioni assunte come
potenti, cioè come sacrali, e non su divagazioni letterarie. Tuttavia
l’inverso non è fenomenologicamente vero:
non tutti i mythoi sono, malgrado contrarie apparenze,
rivelazioni potenti, perché sono individuabili come miti autentici
solo quelli che trattano di ierofanie e di eventi ierofanici che sogliono
riattivarsi – ora come allora – in riti (dròmena)
corrispondenti, celebrati in spazi e in tempi dèbiti seguendo rigorosi
cerimoniali, rivelati essi stessi e non liberamente inventati. Diversamente
si tratta di mera letteratura, ad es. filosofica, poetica, favolistica,
cronachistica etc. da valutare, tuttavia, solo con le dovute cautele,
come tale.19 In ogni modo, ciò che occorre e basta ai singoli
e alle collettività per sopravvivere in qualunque universo culturale
basato sul Sacro è l’allestimento urgente di un sistema mitico-rituale
perfettamente funzionale ai bisogni fisici e psichici di una comunità
umana e, seguendo tale direzione interpretativa, i miti sono da intendere
come paradigmi cognitivi ed esistenziali, in altre parole come modelli
percettivi, affettivi, valutativi, operativi, elargiti e garantiti
da figure potenti, ricevuti e conservati poi gelosamente, così come
sono stati rivelati, sotto la protezione di divieti e di tabu ne varietur, onde trasmetterli integri ai
nuovi nati mediante l’inculturazione. Poiché
senza di questa un primate, sebbene nato da donna, non potrebbe sopravvivere,
è evidente che là dove una comunità umana dipende totalmente da un
sistema mitico-rituale riconosciuto dalla tradizione, è assurdo ritenere
che tale sistema possa essere il frutto di una libera e spontanea
attività creatrice e inventiva da parte dell’uomo e venga geneticamente
consaputo come tale non solo dall’antropologo dei nostri giorni, ma
anche dagli stessi indigeni. Se ciò fosse
vero e non fosse invece solo l’esito ermeneutico dell’umanesimo nichilista
della postmodernità, come ritengo, è lecito domandarsi quale affidabilità
potrebbe mai scaturire da contenuti e da valori geneticamente così
precari e gratuiti, che tanto più salda dovrebbe essere se si pensa
che essi pretenderebbero di svolgere il compito gravoso di fondare,
di legittimare, di identificare e di assistere, soprattutto nelle
traversie più gravi dell’esistenza, un popolo intero? Umano, troppo
umano tutto questo. La più grandiosa narrazione biblica è,
certamente, quella dell’Esodo e in essa giganteggia,
riecheggiando potentemente ancora oggi, l’episodio enigmatico della
Montagna di Dio. Ma ciò che si presenta come l’evento fondamentale
dell’etnogenesi di un popolo, cioè d’Israele,
appare allo sguardo dell’archeologo, dello storico, del filologo del
Vicino e del Medio Oriente Antichi molto poco “affidabile”. Anzitutto
non sembra plausibile l’esegesi che fissa l’epoca dell’Esodo nel XIII
e XIV secolo a. C., malgrado la sicura esistenza
di un remoto culto degli antenati proprio della condizione nomadica
e seminomadica in generale, da rendere ammissibile20 quell’età remota dei cosiddetti Patriarchi extraurbani,
ricettori delle Rivelazioni come Abramo, Isacco e Giacobbe, scandita
da significative transumanze non sempre pacifiche dai campi estivi,
sugli altipiani centrali, a quelli invernali, nel Negev, e viceversa,
tutti siti segnati ancora da simboli inequivocabili di culti pastorali.
È, insomma, difficile sostenere “l’ipotesi che i racconti dei Patriarchi
rappresentano un quadro autentico delle migrazioni degli antenati
degli Ebrei, avvenute ad un dato momento
nel Bronzo Medio e che l’occupazione della Palestina da parte degli
Ebrei sia avvenuta verso la fine del Bronzo Tardo, per la quale i
successivi resoconti delle imprese di Giosuè costituiscono una fonte
autentica”.21 Molto incerta, inoltre, è l’individuazione della
reale rotta percorsa dagli esuli nel tormentato perimetro dei transiti
millenari dall’Africa all’Asia, dal Delta del Nilo alla Palestina,
con il portentoso passaggio del Mar Rosso o del Mar delle Canne (Yam
Suf), e della concreta sequenza delle tappe fino all’accampamento
fatale ai piedi del Sinai, di quella misteriosa Montagna di Dio che,
a causa di un tabu, sarebbe stata scalata, secondo la tradizione,
solo dal profeta Elia, dopo Mosè, e di cui si sarebbe “stranamente
smarrita”, da parte delle successive generazioni, la certezza della
sua ubicazione. Una mancanza imperdonabile, questa, perché sarebbe di una gravità
inaudita, data l’assoluta autorevolezza del sito, se si fosse trattato
– il che non è – semplicemente di una colpevole trascuratezza.
Intanto, “Mosè non è mai citato (a parte un passo di Michea 6:4
che è però di assai dubbia autenticità) prima dell’età postesilica;
e anche il Sinai è citato solo un paio di volte (Giud. 5:5;
Sal. 68) ma senza collegamento al patto tra Dio e popolo”.22 Har Karkom (Monte dello Zafferano), una
montagna a forma d’altopiano, che domina il deserto Paran a m. 847
s.l.m., posta nel Sinai nord ai confini di Amalek e Madian,
è stato oggetto dal 1980, insieme con importanti siti viciniori, di
intense ricerche archeologiche per opera di una missione del Centro
Camuno di Studi Preistorici, i cui risultati, coniugati con analisi
geografico-storiche ed esegetiche, avrebbero indotto il Direttore
Emmanuel Anati a proporre l’ipotesi della identificazione di Har Karkom
con il biblico Monte Sinai di Mosè.23 A differenza della celebre cima cui fu dato il
nome di Jebel Musa o Montagna di Mosè, nel sud del Sinai, ai cui piedi
l’imperatore Giustiniano fece costruire nel VI sec. d.C. il
celebre Monastero di Santa Caterina, Har Karkom testimonia con abbondanti
testimonianze archeologiche (ben trecento siti assai particolari),
già a partire dal Paleolitico Superiore, una frequentazione devozionale
significativa di un sito indubbiamente importante perché dominava
un tempo ampi territori di caccia, per l’esistenza di acque sorgive,
di vita vegetale, di giacimenti di ottima selce con presenza in situ di ateliers di taglio. Un luogo ideale, insomma, per i pastori nomadi
o seminomadi che amavano muoversi lungo la periferia della fertile
Mezzaluna, dalla Mesopotamia all’Egitto, per accamparsi e far svernare
le greggi sotto la protezione del Monte, come testimoniano, del resto,
a partire dal Calcolitico (Antica Età del Bronzo, cioè
nel III millennio), resti di strutture abitative di una popolazione
cospicua ai piedi dell’altopiano e luoghi di culto, persino antichissimi,
in cima ad esso. Cippi, menhir, dodici ortostati, come le
stele erette da Mosè (massebot), insieme ad un altare, in nome
delle dodici tribù voventi d’Israele24, quaranta grandi noduli di selce, approssimativamente
antropomorfi e zoomorfi per bizzarrie della natura, di cui alcuni
ritoccati da preistoriche mani umane per suggerire occhi e narici
e una grotticella in cima che induce ad evocare irresistibilmente
gli episodi dell’incontro con Dio di Mosè25 e di Elia sull’Horeb. Costui restaurerà, poi, l’altare
diruto del Signore e vi lascerà come Mosè le tradizionali dodici pietre
quali voti tribali.26 È indubbio che Har Karkom ha rivelato numerosi particolari che sembrano corrispondere,
in prima istanza, alla descrizione biblica del Monte Sinai. Tuttavia,
come lo stesso Anati riconosce, pur senza
abbandonare la propria tesi, “Har Karkom è completamente fuori da
tutte le rotte che sono finora state proposte per l’itinerario dell’esodo”
e “i reperti che datano l’accampamento ai piedi della montagna e i
luoghi di culto su di essa risalgono ad almeno 500 anni prima delle
date che l’esegesi biblica ha finora proposto per l’età dell’Esodo”.
27
Inoltre, la natura dell’avvento d’Israele nella
Terra di Canaan, fissata dalla tradizione biblica come conquista bellica
e conseguente insediamento intrusivo, è stata sottoposta a faticose
revisioni, tra le quali desidero ricordare quella di Finkelstein
28
per il quale gli Israeliti sarebbero una popolazione
di pastori d’origine locale, lentamente diffusasi nella regione collinare
interna durante il Bronzo Tardo, rifiutando in tal modo ogni idea
spettacolare di diffusione e di migrazione, e quella di Stager
29
che ritiene la crisi del sistema economico e delle
reti di scambio dell’Età del Bronzo e, quindi, delle città-stato nella
Terra di Canaan, con il coevo declino dell’impero egiziano, responsabili
del cambiamento delle strategie di sussistenza da parte degli allevatori
– costituenti una parte della popolazione dei villaggi nella regione
collinare interna – che integrarono l’allevamento con l’agricoltura
nel 1200 a.C.. A queste restano affiancate altre tesi, più in linea
con la tradizione, anche se si dibatte sempre se questi primi Israeliti
che penetravano con le armi in pugno provenivano dall’Oriente o dall’Occidente,
lasciando i centri urbani alla ricerca di nuovi pascoli.
30
Non essendo uno specialista, non intendo, ora, in alcun modo, “appoggiare il nuovo scetticismo circa
la possibilità di confermare o refutare le tradizioni bibliche sulla
base dei testi vicino-orientali extrabiblici” – mi riferisco,
in particolare, ai tentativi falliti di G. Pettinato di cogliere dei
legami tra i testi trovati ad Ebla (città-stato della metà del III
millennio) e i racconti e i personaggi biblici, fondando, in tal modo,
la storicità dei racconti dei Patriarchi – “ovvero dell’archeologia
da campo”
31
, e nemmeno sono in grado di prendere posizione
con cognizione di causa nel conflitto delle interpretazioni. Intendo,
piuttosto, applicando le tecniche dell’analisi fenomenologica contrastiva,
isolare i contenuti e le strutture dei vissuti di un’alterità etnica,
compresa come tale in contrasto con la nostra cultura, costituenti
il fondamento di senso di un complesso impianto
culturale che sarebbe sorto in Palestina durante la cosiddetta “cesura”
del VI secolo a. C., rimasta quasi invisibile, a differenza di quella
precedente molto più nota, prodottasi all’epoca del transito nell’Età
del Ferro. Valutata d’indole puramente ideologica, tale costruzione
integralmente utopico-retrospettiva avrebbe messo
a punto, con una radicale “rivisitazione storiografica”, il
monoteismo etico, il monotemplarismo, la monarchia unita carismatica,
la Legge, i Profeti e, in definitiva, un’etnogenesi e una storia di
popolo fondamentalmente inventate, sebbene lo storico deve pur sempre
accertarsi fino in fondo quanto di rielaborato e quanto d’antico sia
poi confluito nella Bibbia.
32
Così il rutilante mondo biblico, straordinario,
anormale, anacronistico e, soprattutto, “unico”, sarebbe l’esito di
una complessa elaborazione ideologica d’origine esilica e postesilica
(età persiana) dal punto di vista di una ricostituzione a popolo,
nell’unità utopica retrospettiva della casa di David, stretto dal
patto con Yahweh – che ribadisce quello di Abramo e di Mosè – di etnie
disperse e disorientate dopo l’esodo da Babilonia con la fine della
loro devastante cattività. Sarebbero state, insomma, inalberate con
l’utopia monarchica e, successivamente, con
quella sacerdotale proiettata nel futuro, mediante l’invenzione del
tempio di Salomone
33
, la formula della comprensione mitica della caduta
e quella della riscossa nazionale che avrebbero significato e garantito,
nello spirito del regno di Yahweh sul mondo, “prosperità contro fedeltà”
34
, secondo lo schema portante del patto con il Dio
di Mosè, articolato in “infedeltà-punizione-pentimento-perdono”. “I
concetti fondamentali dell’ideologia deuteronomistica sono i seguenti:
1) Yahweh è un dio unico. 2) Il rapporto speciale tra Yahweh e il
suo “popolo eletto” è basato sul patto, il cui nucleo sono “le tavole
della Legge” di Mosè, custodite nell’arca di Yahweh depositata nel
tempio sin da Salomone. 3) Yahweh ha portato fuori dell’Egitto Israele
e gli ha dato la terra di Canaan. 4) Canaan dovrà essere conquistato
secondo le procedure della “guerra santa” e dell’herem.
35
5) Al popolo incombe l’obbligo d’essere fedele
a Yahweh e alla sua Legge, e dunque di resistere ad ogni tentativo
d’apostasia e d’idolatria. 6) Il tempio di Yahweh deve essere uno
solo, quello di Gerusalemme, “dimora del nome di Yahweh”
36
e alieno da manifestazioni cultuali troppo materiali
(iconismo compreso) avvertite come estranee e pericolose.”
37
Di certo, un’impresa apologetica imponente, questa,
religiosa e storiografica insieme, difficile e persino ritualmente
molto contrastata
38
, com’è noto, da non pochi sovrani posteriori, con
cui un re di Giuda, Giosia, nei decenni tra il collasso dell’Assiria
e l’affermarsi di Babilonia, tentò di raccogliere in una nazione unitaria
(Giuda-Israele), cosciente e fiduciosa di sé, “gli esuli giudei non
ancora assimilati al mondo imperiale”.
39
Così l’adozione di Yahweh come dio delle tribù
israelite e la sua elevazione a culto nazionale, traslando dal Sinai
a Gerusalemme, risalirebbe al periodo compreso tra il 900 e 850 a.
C., per il regno di Giuda, e al cinquantennio tra 850 e 800 a. C.,
per il regno d’Israele
40
e, per quanto riguarda i comandamenti del Decalogo,
dalla singolare formulazione apodittica, mentre alcuni di essi, come
onora il padre e la madre, potrebbero pure godere di una datazione
alta, il primo comandamento, data l’indole particolare, non potrebbe
essere anteriore a Giosia.
41
Se, ora, proviamo ad isolare i vissuti
tribali di comunità pastorali e contadine, sedimentati nell’universo
dei segni della cultura simbolica e materiale rimastoci, e li sottoponiamo
all’analisi fenomenologica per cogliere contrastivamente, cioè
senza proiettare su di essi, manipolandoli, i principi e le categorie
della nostra cultura, ci si accorge che certe conclusioni ermeneutiche,
formulate in base ai risultati delle indagini scientifiche multidisciplinari,
appaiono antropologicamente sfigurate, perché ci restituiscono di
quei segni un set di significati che loro non appartiene
perché esso, in realtà, è quanto di senso noi abbiamo proiettato,
senza cautela alcuna, su di essi. È come se ci guardassimo allo specchio.
Tali interpretazioni si appellano, infatti, come se fossero ovvie,
“naturali”, alle ragioni secolarizzate di un’ideologia nazionalistica
che, elaborata da classi dirigenti laiche e sacerdotali, ha partorito
una teologia inaudita – che copre, in realtà, un’operazione di puro
potere –, un’etnogenesi tanto esaltante quanto assurda e, infine, una storiografia – se pure
è lecito ritenerla tale – retrospettivamente mistificante, per la
quale ciò che conta non è la ricostruzione oggettiva del passato,
ma solo la fondazione e la legittimazione, rendendo, in tal modo,
assolute, esclusive e, addirittura, ineludibili, le supreme ragioni
di riscatto di un popolo che va convinto di essere tra i popoli l’eletto
di Yahweh, di aver perduto ogni cosa per propria colpa e di poter
attingere significativamente tali ragioni solo rivolgendosi ad una
suprema figura potente la cui voce imperiosa giunge sempre da un remoto
e nebuloso passato, secondo la logica e l’economia delle tradizioni
culturali. Ma, in realtà, tali complesse elaborazioni sono per la
fenomenologia contrastiva non già operazioni puramente ideologiche,
escogitate liberamente da un immaginario umano per fini qualsivoglia,
sebbene lievitate spesso intorno a nuclei naturali e storici di verità
oggettive, ma qualcosa di totalmente altro, in altre parole costituzioni
mitologiche di senso – dove la semantica del termine mito è stata
già in parte presentata e rivista fenomenologicamente – che non fanno
capo ad alcuna improbabile ragione “mitopoietica”
appartenente ad un io creatore, secondo un equivoco luogo comune inventato
dalla cultura occidentale, ma ad una coscienza che vive e pensa in
postura rivelativa attingendo forme e contenuti all’enciclopedia della
tribù, conservata gelosamente perché rivelata e trasmessa, quindi,
integra per via orale e scritta a fini inculturativi. È impossibile, intanto, ignorare l’indole
particolarmente nevralgica del territorio, teatro degli eventi biblici,
che ne fanno una zona collocata, nel bene e nel male, nell’area etnicamente
più ibridata in assoluto dell’intero pianeta e che, molto prima delle
invasioni protostoriche e storiche e dei transiti delle grandi carovaniere
africane ed asiatiche a dorso d’asino (Età del Bronzo) e, poi, del
cammello (Età del Ferro), assistette all’esodo prototipico della storia
umana, l’uscita dall’Africa dell’homo
sapiens. Poche pianure alluvionali, destinabili solo ad un’agricoltura
non irrigua, quindi pluviale, poi steppe predesertiche, colline e
montagne boscose, adatte alla pastorizia transumante di bestiame minuto
(ovini e caprini), sembrano allestire uno scenario da “non luogo”,
segnato dall’oscillazione “nomadismo-sedentarizzazione” e destinato,
quindi, alla precarietà identitaria e all’imprevedibilità esistenziale.
Sebbene la denunzia di una simbiosi tra habiru (ebrei) e nomadi per costituire
bande di fuori-legge che spesso, per esempio durante l’Età del Bronzo,
davano filo da torcere agli Egiziani e ai re cananei, è evidente
che la Palestina poteva sentirsi libera solo in certe drammatiche
vacanze di potere, quando i grandi imperi entravano in crisi o addirittura
crollavano, come accade, ad es., alla fine del Bronzo con la caduta
degli Ittiti, delle città cananee e l’indebolimento dell’Egitto sotto
l’urto dei cosiddetti Popoli del Mare. Pastori e contadini avrebbero
certamente frequentato insieme i luoghi sacri deputati a pratiche
devozionali, di norma tombe di antenati,
querce secolari, cime di monti e di colline, con altari all’aperto
per i riti sacrificali, invocando divinità maggiori e minori, sempre
molteplici, che nelle culture neolitiche non solo mediterranee, ma
anche nordeuropee ed asiatiche, potevano concentrarsi intorno alla
nota triade “divinità del Cielo, della Terra e della Vegetazione,
figlio o figlia”
42
, mentre l’enfasi devozionale era portata tendenzialmente,
a seconda dell’economia sedentaria (contadina) o nomadica (pastorale),
rispettivamente sulla divinità della Terra o su quella del Cielo.
Questa figura potente, eminentemente, ma non esclusivamente, maschile
e patriarcale, onniveggente ed onnisciente, che dall’alto dei monti
adunava le nubi per dispensare piogge benefiche o per scatenare tempeste
devastatrici (Wettergott), quali gratifiche o sanzioni meteoriche
43
, era affiancato, stando ad attestazioni epigrafiche
fin dai testi mesopotamici del II millennio, da Dee in veste di paredre o di consorti.
E in veste di paredra di un Signore della montagna (Ursag, significante anche steppa e terra aperta)
44
sarebbe da annoverare anche la dea Ashera
45
che, a partire dai secoli tra il
IX e VIII a. C., avrebbe avuto un culto nel tempio accanto
a Yahweh, sicuramente fino alla riforma di Giosia che avrebbe imposto
con la concezione deuteronomistica e con l’affermazione dell’unicità
del Signore e del Suo Tempio la distruzione delle ashere e dei pali sacri dentro e fuori
il Tempio, oltre agli altari, alle stele, agli idoli che si solevano
allestire da sempre sugli alti monti, sui colli e sotto ogni albero
verde
46
, in funzione anche apotropaica contro i demoni
che, stando ad antiche rappresentazioni mesopotamiche, pur risiedendo
sui monti, nelle steppe, nelle paludi e nei deserti, amavano scatenarsi
come venti rovinosi e tempeste alluvionali nelle valli, colpendo i
campi coltivati, i villaggi e le città.
47
Malgrado una radicata tradizione cultuale, ben
testimoniata dalle formidabili resistenze da parte degli accoliti
tradizionalisti che spesso convinsero molti re successivi a ripristinare
le ashere, è probabile che
dal secolo V a. C. in poi da indigena, quale
essa era, Ashera divenne paradossalmente una delle tante dee delle
popolazioni straniere cananee, quindi, di fatto, etnicamente estraniata
48
e il suo culto, insieme a quello reso a Baal e
alle cosiddette Milizie del Cielo, furono addirittura accusati dalla
teologia palaziale e templare di essere responsabili del tradimento
del Patto con Yahweh e quindi delle inesorabili punizioni del Signore
rappresentate dalle disastrose sconfitte d’Israele e di Giuda. È indubbio che il sorgere della cosiddetta
scuola deuteronomista rappresenta una tale novità culturale da scandire
e segnare, come ritiene giustamente M. Liverani, una seconda epocale
cesura, sia pure d’indole puramente ideologica, nella storia d’Israele
e del Vicino Oriente, dopo quella, per così dire, “globale” occorsa
con l’avvento dell’Età del Ferro nel Mediterraneo Antico. Ma ciò che
suscita perplessità è un’interpretazione tendenzialmente radicale
che presenta tale accadimento culturale come il frutto di un’operazione
palaziale e templare di vertice, cioè progettata
e imposta da élites cittadine, basata su astratte formulazioni
dottrinarie di principio che sancirebbero perentoriamente il monoteismo,
l’eticismo del comportamento e la trascendenza di Yahweh, presentandoli,
inoltre, artatamente, come principi rivelati da Dio stesso fin dall’epoca
patriarcale e andati, poi, smarriti scelleratamente, suscitando con
la collera divina delle punizioni estreme come il passato del popolo
eletto, storiograficamente ricostruito ad
hoc, testimonierebbe ampiamente. Si può pure ragionevolmente ritenere
che la lunga cattività in terra straniera, con lo sradicamento d’Israele
dal suolo patrio, abbia provocato nel popolo la perdita della propria
“enciclopedia tribale”, che non è facile immaginare, tuttavia, come
uno smarrimento integrale o coinvolgente, in blocco, i fondamenti
identitari etnici stessi, se non altro per le accanite e reiterate
resistenze, persino a livello regale, tramandateci copiosamente dalla
Bibbia. In tal caso apparirebbe tutt’altro che agevole, al ritorno
degli esuli nella Terra Promessa, cioè in
aree, per altro, etnicamente altamente ibridate come lo sono, del
resto, tutte quelle del Vicino Oriente, qualunque impresa “rivoluzionaria”
da parte dell’intellighenzia del tempo di proporre ad
essi di votarsi ad una visione radicalmente “ricostruttiva” della
vita e del pensiero dei singoli e della collettività in funzione identificante
e securizzante prescindendo dallo spirito della tradizione avita.
Ma non intendo né posso, in mancanza di competenze specialistiche,
procedere ancora su tali argomenti, addentrandomi doverosamente nella
disamina approfondita e nella valutazione diretta dei dati a disposizione.
Intendo volgermi, piuttosto, aderendo alle istanze
metodologiche di un’antropologia analitica fenomenologica, come ho
già segnalato, al rilevamento, alla comprensione e al giudizio dei
principi e delle categorie appartenenti alla prospettiva metodologica
dell’analista o dell’interprete, seguendo la convinzione epistemologica
che, sebbene i dati delle teorie non siano mere costruzioni elaborate
dagli scienziati stessi, tuttavia sono tali che il volume dell’informazione
da essi elargito è di gran lunga inferiore al loro apparato costruttivo.
Così, nel caso in questione, se proviamo ad isolare i principi e le
categorie che hanno guidato e guidano normalmente l’approccio scientifico,
storico, epigrafico, archeologico e filologico degli eventi biblici
prima di Cristo, siano o non siano i loro esponenti sensibili alle
ragioni delle Sacre Scritture e condizionati da esse, e procediamo, poi, a confrontare questi criteri metodologici
isolati, di matrice culturale occidentale, con quelli forniti dall’antropologia
fenomenologica, applicati entrambi nell’analisi dei medesimi sistemi
culturali mitico-rituali, è facile accorgersi che essi divergono tecnicamente
in maniera piuttosto imponente a livello dei protocolli stessi di
cui dispongono, e i risultati medesimi conseguibili con l’uno e con
l’altro approccio sono, conseguenzialmente, tra di loro non compatibili.
È affidato, quindi, al paziente lettore la valutazione dei metodi
qui divergenti. Va, anzitutto, osservato che l’interpretazione
generale, già enunciata, che assume come operazione ideologica di
stampo nazionalistico, fatta a tavolino, la riscrittura della storia
d’Israele, l’etnogenesi patriarcale, il progetto del monoteismo e
del monotemplarismo yahwista, l’invenzione della legge mosaica e della
monarchia unitaria davidica, interpretando tutto come una retroiezione
intenzionalmente escogitata da importanti esponenti del popolo in
epoca postesilica, è per la fenomenologia, invece, l’esito inevitabile
dell’applicazione ai dati di un sistema culturale radicato nel mito
e nel rito dell’usuale lezione occidentale, espressione del remoto
razionalismo critico elitario greco che ha smarrito fin dalle origini
il contenuto e il senso specifici del vissuto rivelativo, senza il
quale non è possibile intendere in alcun modo il set d’ordine e di associazione di qualunque
sistema mitico-rituale. La difficoltà per l’analista di sorprendere
in actu questo vero e proprio corto-circuito
semantico, ermeneuticamente cruciale, è dovuta
all’assunzione in chiave assoluta ed esclusiva, per altro fisiologica
in ogni indigeno culturalmente sano, dei principi e delle categorie
esistenziali e cognitive della cultura d’appartenenza con la conseguenza
inevitabile di proiettarli dappertutto senza cautela alcuna, invece
di accostarli senza sovrapporli a quelli degli altri, onde soppesarli
insieme contrastivamente – come l’antropologia fenomenologica suggerisce
– sospendendone in tal modo la metaculturalità, per altro ingiustificata,
del loro essere e del loro valore. L’indole rivelativa dei contenuti
e delle strutture di senso dei vissuti delle manifestazioni mitiche
significa per l’analisi fenomenologica l’esistenza
vincolante di alcune caratteristiche d’essenza che appaiono totalmente
altre rispetto a quelle visibili se si analizzano i vissuti delle
manifestazioni fenomeniche. La postura rivelativa tipica del vissuto
esistenziale e di credenza secondo il quale
i pensieri, i sentimenti, le volizioni e le azioni non sono intesi
come atti dipendenti da un soggetto relativamente autonomo, ma come
elargizioni all’uomo da parte di coscienze non umane, implica una
coscienza impersonale ed eteronoma, rispecchiante contenuti rivelativi
iperreali e coincidente (per definizione) con essi senza resti. È talmente esemplare, per la fenomenologia, l’alterità
della manifestazione fenomenica in cui il suo stato, essenzialmente
insaturo, dipende dalla non coincidenza a priori di apparire ed essere,
rispetto a quella rivelativa, da comportare strutture di senso, cioè modelli di spazio, di tempo, di logiche altrettanto incommensurabili.
Così, mentre nei vissuti rivelativi, sempre saturi o saturabili a
priori, si rilevano spazi dell’ubiquità, tempi della ripetizione (reversibili)
e logiche non parmenidee
49
, nei vissuti fenomenici egocentrati, costituenti
intenzionalmente oggetti, essenzialmente insaturi e non saturabili,
compaiono contrastivamente spazi prospettici, tempi storici (irreversibili)
e logiche di tipo parmenideo che la cultura occidentale, nata con
essi, considera ovvii ed, equivocamente,
“naturali”. Ne segue che nessun mito degno di questo nome può mai
essere colto nel vissuto indigeno in
statu nascendi come un’opera qualsiasi dell’ingegno umano che
crea abitando il tempo irreversibile della storia, perché la sua origine
e la sua legittimazione dipendono sempre da qualcosa che in luoghi
e in tempi “incerti” è già accaduto per la prima volta, quando non
da sempre, secondo l’analisi del vissuto rivelativo, ove in una coscienza
in postura rivelativa ciò che si manifesta ha i connotati realissimi
propri di ciò che si dà perché è sempre già prima e a prescindere
dal darsi, a differenza di quanto accade in una coscienza egocentrata
che, dovendo costituire il proprio oggetto, lo assume di necessità
come reale solo nella precaria attualità del suo darsi all’io in spazi,
in tempi e in logiche misurabili e controllabili oggettivamente. All’interno
del paradigma mitico, tutti gli accadimenti profani ricevono senso
ed esistenza di cui sono privi solo in quanto ubiquamente e ripetutamente
si coniugano, senza confusione, con gli eventi prototipici loro corrispondenti.
Si chiarisce, allora, la ragione dell’intima difficoltà di datare
e di localizzare eventi mitici, che non risiede
nell’evasività di ogni gratuita
invenzione partorita da un soggetto mitopoietico che, a fini molteplici,
plasma in piena libertà mondi fantasmatici ed alieni, esistenti, malgrado
qualche inevitabile riferimento reale, solo nella sua robusta fantasia,
ma nell’indole iperrealista del dato rivelativo, ingannevole come
un miraggio solo perché è inafferrabile dalle strutture di senso oggettivanti.
50
C’è, insomma, qualcosa d’altro ed esso, in
veste di realtà rivelata e non fenomenica, è irriducibile all’oggettività
fisica e storica o a qualunque fantasticare soggettivo e si sottrae
del tutto, come si vedrà, alla stessa dicotomia “spirito-materia”.
Comunque, sebbene rivelazioni e fenomeni
rientrino nel vastissimo universo delle manifestazioni, non devono
essere confusi in alcun modo – malgrado ogni ibridismo culturale –
i naturali esiti mitico-rituali dei vissuti rivelativi con quelli
della filosofia, dell’arte, della fede, della scienza e della tecnica
che muovono tutti da vissuti fenomenici di base, la cui intima condizione
insatura impone un necessario, intenso e continuo dinamismo intenzionale,
rinviante ad un ego che svolge funzioni cognitive ed esistenziali
integratrici proprie di una coscienza relativamente autonoma cui una
crisi epocale ha sottratto la postura rivelativa. La trascendenza, l’eternità, la spiritualità,
la personalità, la solitudine (monoteismo) di Yahweh
51
sono tutte ritenute connotazioni
rivelate da Dio stesso e sono state sancite, pertanto, come ortodosse
dalle istituzioni ufficiali delle Chiese. Tuttavia esse non appaiono,
in una certa misura, in linea con i risultati di
analisi fenomenologiche applicate ai contenuti e alle strutture
di senso di noti vissuti sacrali, sedimentatisi nei segni di alcuni
celebri luoghi dell’Antico Testamento, considerati testimonianze dirette
di quelle connotazioni. L’incompatibilità di queste con i protocolli
dei sistemi mitico-rituali, formulati da un’antropologia fenomenologica
in base alle analisi contrastive con i protocolli dei sistemi culturali
che tali non sono, appare un esito inevitabile, indotto, di certo,
dall’ibridismo culturale, dell’impiego occidentale di principi, di
concezioni e di categorie fondamentali d’origine greca nell’interpretazione
di vissuti sacrali semitici, generando l’inevitabile paradosso ermeneutico
di impiegare, per la comprensione dei vissuti rivelativi, strutture
di senso (modelli spazio-temporali e logici)
d’origine greca, che sono notoriamente destinati, come più volte segnalato,
ad ordinare e a relazionare i fenomeni. Tale modo ermeneutico di procedere,
senza possibili alternative culturali, asseconda
e accentua ulteriormente la tendenza, tipicamente occidentale, della
riduzione fenomenica d’ogni dato rivelativo, cioè quella tendenza
epocale i cui germi sono stati segnalati in atto dall’analisi fenomenologica
in alcuni vissuti dell’area egea già alla fine del cosiddetto Medioevo
Ellenico, dopo l’avvento dell’Età del Ferro. Tuttavia, come più volte
segnalato, l’indole insatura e deficitaria della manifestazione
fenomenica, che s’individua ormai chiaramente presso i protofilosofi
dell’Ellade come l’ambito degli aisthetà,
esige l’intervento di complesse operazioni per integrare e per
eliminare lacune e ambiguità manifestative sempre presenti nel fenomeno,
strumenti ausiliari, questi, che, evidentemente, non possono essere
mutuati dal mondo manifestativo stesso, ma da qualcosa di assolutamente
altro, cioè dall’universo inedito dei noetà,
generato da un logos disincarnato. Tale caratteristica inaudita che fa del pensiero
occidentale un’efficace struttura relazionale operante “a vuoto”,
cioè del tutto indipendentemente dai contenuti di volta in
volta incorsi da trattare, si è istituzionalizzata in Occidente a
partire dal filosofo Parmenide che, prendendone le opportune distanze,
si è sottratto in volo, per comprenderlo e per sfuggirlo, dal mondo
terrifico e assurdo del divenire, quello abitato dai comuni mortali.
E il negativo cognitivo ed esistenziale del mondo “di quaggiù”, che
gli universi mitico-rituali attribuiscono di norma all’azione punitiva,
pur non sempre umanamente perspicua, di figure potenti in veste vendicativa
o correttiva, fu attribuito dalla filosofia greca e, poi, con notevoli
varianti del tema, dall’Occidente stesso, alla presenza al fondo dell’esistente
di qualcosa d’oscuro, impenetrabile, informe, atono, inanimato e,
presso certi pensatori, di intimamente maligno, che fu chiamato hyle,
in altre parole materia, la negazione sintetica del noeton e dello pneuma. Avendo, ora, la
fenomenologia individuato le precedenti connotazioni di Yahweh
come l’esito dell’impiego di noetà
per la comprensione di dati d’origine rivelativa come se questi fossero
fenomenici, cioè dei meri aisthetà,
è evidente che la singolare scoperta dell’indole essenzialmente noetica
dei vissuti di trascendenza, d’eternità, di spiritualità, di personalità,
d’unicità di Dio, fenomenologicamente disincarnati, cioè privi di
hyle, e, tuttavia, intesi come esistenze “metafisiche” sottratte alle
contaminazioni della materia, confligge intimamente, secondo i protocolli
generali della fenomenologia, con la base rivelativa dei vissuti mitico-rituali
che, come più volte precisato, elargendo in un unico blocco e in modalità
sature la realtà e il senso, implicano un pensiero inauditamente iperrealistico
e, quindi, necessariamente incarnato e dotato di proprie particolari
strutture di senso analogamente incarnate. Una realtà e un senso del
tutto alieni, questi, isolabili fenomenologicamente solo nei vissuti
impersonali costituenti il necessario fondamento dei sistemi culturali
mitico-rituali, per la cui corretta comprensione occorre rimuovere
radicalmente consolidate polarità greche ed occidentali quali “noeton (astratto)- aistheton”
(con nocciolo materico)”,“spirito-materia”, “pneuma-soma”. Sarà,
ora, possibile, praticando uno scavo di “archeologia fenomenologica”,
riportare alla luce alcuni vissuti mitico-rituali occultatisi a causa
del vestito di idee estranee sedimentatosi loro addosso durante millenni
di interpretazioni condizionate da imponenti ibridismi etnici? Una
relazione fenomenologica di un breve “saggio di scavo”, praticato
nell’area culturale dei vissuti dei culti delle
vette, sia pure limitato al Vicino e al Medio Oriente Antico, parrebbe
essere particolarmente promettente. Come già anticipato, è una credenza piuttosto
diffusa nel Mediterraneo Orientale Antico, e non solo in area semitica,
che una figura sacra maschile tribale, onniveggente e onnipotente,
destinata ad accompagnare le schiere devote in battaglia, cavalchi
sulle nubi e le aduni intorno alle cime dei monti, scatenando tempeste
con tuoni e fulmini come sanzioni meteoriche o sparga
piogge fecondanti e dissetanti per i campi inariditi, per le bestie
e per gli uomini, quali azioni benedicenti, attestandosi genericamente
come un dio uranico. E ciò prima di acquisire il ruolo, evidentemente
tardivo, di Dio nazionale, quando l’identificazione proposta tra dio
e stato etnico diviene concretamente operativa sul piano politico
e militare, in linea, del resto, con remote e consolidate
tradizioni medio orientali. Ad esempio, tra gli Ittiti c’è
noto il culto reso “al Signore del paese di Hatti” (Dio della Tempesta)
che poi era il loro potente dio nazionale, sebbene gli pullulassero
accanto una moltitudine di dei particolari
della tempesta in quanto dei di questa o di quella città o identificabili
per qualche loro caratteristica speciale.
52
Tali divinità, prevalentemente uraniche, certamente
relate a remoti vissuti neolitici nomadico-pastorali come “divinità
del padre” (il Dio del sacerdote Ietro, il suocero di Mosè?) non sempre
facilmente distinguibili, comunque, con un colpo netto dai vissuti
sedentari dei contadini, dati i loro intensi rapporti collaborativi
o antagonistici, sebbene possano manifestarsi in vari luoghi, come
monti, fonti, alberi, boschi, etc., che vengono, in tal caso, segnati
da manufatti come altari di pietre “non toccate dal ferro” e stele,
questi non sembrano essere intesi necessariamente come delle vere
e proprie sedi abitative del Dio
53
. Infatti, nello stile proprio di quel vissuto nomadico
per cui la terra viene semplicemente intesa
come mera superficie da striare senza radicamento alcuno in profondità
o con soste definitive
54
, i luoghi ierofanici sono tutti possibili siti
di soggiorno divino più o meno temporaneo – come lo sono, del resto,
le statue cultuali (Kultbilder) stesse – e possono essere addirittura abbandonati per
l’indegnità umana
55
, soprattutto da parte di quelle divinità come Yahweh dalle indiscutibili connotazioni uraniche, perché
esse, in effetti, con un’espressione tanto vaga quanto semanticamente
molto stimolante, sono ritenute “abitare in Cielo”. Il vissuto di tale
espressione intende significare nel duro iperrealismo proprio della
semantica mitica l’epiteto di “Altissimo” dato a Yahweh, perché Egli,
quando si rivela agli esseri umani nella veglia o durante il sonno
o tramite le sorti (Urim)
56
, suole apparire sempre elusivamente “sulla porta
del Cielo”
57
, ad esempio solo “ di spalle”,
58
esalando subito, volatile e aereo, verso l’alto,
sottraendosi, in tal modo, alla vista dei possibili testimoni, anche
per la mortale pericolosità dello splendore accecante che suole emanare
dalle teofanie o dai trasfigurati da Dio (Mosè, Gesù), secondo un’antichissima
e diffusa credenza mitica, probabilmente ecumenica.
59
Tra Sé e gli uomini compaiono in veste di ausiliari
o di intercessori apparizioni in molteplici guise di anomali eventi
naturali o di figure potenti o di devoti da Lui privilegiati (Elohim,
Angeli, Patriarchi, Profeti), come presso le Querce di Mamre
60
, sul Monte Moria
61
, al guado dello Iabbock
62
, sull’Oreb nella fiamma di un roveto inestinguibile
63
, nello sterminio pasquale dei primogeniti in Egitto
64
, nella peste in Israele
65
, nel viaggio di Tobia
66
, nella colonna diurna di fumo e notturna di fuoco
a guida e a difesa degli Israeliti all’uscita dall’Egitto
67
, nei tuoni, nei lampi e nelle fiamme della teofania
sinaitica, tempestosa e vulcanica
68
, nei calabroni per mettere in rotta i nemici
69
, all’assedio di Gerico
70
, nello sterminio degli Assiri di Sennacherib
71
, nelle vittorie belliche dei nemici del popolo
eletto per punire l’infedeltà d’Israele
72
, contro il sacrilego Eliodoro
73
, in soccorso di Daniele
74
, etc.. È indubbio che Yahweh non si mostra mai
visibilmente in maniera diretta, identificandosi, ad esempio, nella
figura di un uomo, di un animale o di un astro
75
. Ama rivelarsi preferibilmente mediante una voce
che, dettando dall’alto le Sue volontà, risuona spesso dolcemente
o crudelmente dietro una cortina di nuvole o di fuoco che ne
occulta il viso
76
, persino quando Yahweh prende possesso del Tabernacolo
del Tempio, dimorando nella Città Santa di Gerusalemme.
77
Ma anche il semplice colloquio dell’uomo con un
Dio invisibile non è esente da un pericolo mortale
78
. Egli è, allora, una figura potente atmosferica
che può possedere o infestare nel bene o nel male uomini e cose
79
, ed è vissuto ed è inteso essenzialmente alla luce
di uno dei Suoi più eminenti attributi, se non ne
è addirittura un mero duplicato, come ruah,
soffio,voce, vento, quello che spirava sulle Acque del Caos prima
della Creazione
80
, e che può esalare con la fiamma dell’altare, quando
nei sacrifici questa s’innalza verso il Cielo
81
, o irrompere e poi svanire in una visione notturna
reale come hypar non come onar (sogno) – non come
puro psichismo onirico – o annunciarsi con il mormorio del vento leggero
82
o con lo stormire delle cime degli alberi sfiorati
dai Suoi invisibili e rapidi piedi.
83
Ma ruah
è, soprattutto, un alito potentissimo donatore di vita, come appare
nella grande visione di Ezechiele della resurrezione dei morti dalle
ossa inaridite dei cadaveri che al soffio divino si rivestono mirabilmente
di nuova carne.
84
Così la semantica dell’Altissimo sembra ruotare
intorno ai vissuti alquanto indeterminati dell’alto e del lontano
di una realtà necessariamente volatile ed aerea, che impongono conseguenzialmente,
in sede rivelativa, modalità manifestative particolari affidate ad
uno dei sensi della lontananza come l’udito e quindi fenomenologicamente
ad una hyle sonora o sostenute
da espedienti visivi di mediazione che – in ogni modo vengano interpretati
– possono comunicare quanto occorre senza annullare le distanze. Anche
i vissuti cultuali nomadici, concernenti le vette dei monti, sembrano
testimoniare che esse svolgono molteplici e importanti funzioni mitico-rituali:
quella della separatezza esemplare di una sacralità isolata da tutto
il resto, quella mediatrice tra l’Altissimo Dio e gli esseri umani,
quella selezionatrice della folla pressante dei devoti, come testimonia
nitidamente la stessa rivelazione sinaitica,
85
quella di indicare il cammino dei morti come porta
verso gli Antenati, secondo quanto attestano la sepoltura di Aronne
sul monte Or e quella di Mosè sul monte Nebo, nel paese di Moab,
86
ordinate da Dio. Questa particolare modalità manifestativa
per cui la figura potente non si darebbe
mai identificandosi con i segni della propria rivelazione – di norma
piuttosto prodigiosi
87
– è stata
compresa ed interpretata, impiegando note e consolidate polarità di
matrice ellenica, come consentanea alla condizione trascendente di
Dio, rispetto al mondo immanente da Lui creato, introducendo nella
cultura mitico-rituale semitica oltre all’estranea distinzione tra
naturale e soprannaturale, il principio divenuto nel pensiero successivo
dell’Occidente del tutto inamovibile secondo il quale il Dio d’Israele
s’interesserebbe solo delle vicende umane, entrando, quindi, nella
storia – un genere letterario che gli Ebrei avrebbero scoperto per
primi – e non degli accadimenti naturali. Tuttavia, per la fenomenologia,
la condizione trascendente sarebbe quel particolare stato di un essere
che eccede decisamente l’intera portata della sfera dei sensi e si rivela,
pertanto, inaccessibile da essi. Tale singolare qualità può essere
ovviamente goduta soltanto da un essere del tutto disincarnato, in
altre parole privato di qualunque nocciolo materico – come già chiarito
– che, per quanto assunto come esistente ontologicamente da un pensiero
metafisico inteso ad attribuirgli il ruolo e la funzione di costituire
un mondo eterno assolutamente altro per riscattare in tal modo cognitivamente
ed esistenzialmente il mondo dell’uomo dall’assurdità del divenire
e dal terrore della morte, esso è, per la fenomenologia, un ente di
pensiero puro, cioè un noetòn che, per quanto ritenuto accessibile
solo da “un occhio della mente”, cioè mediante un’intuizione intellettuale,
esso tende fatalmente a slittare verso quello stato di mera forma mentis che lo riduce ad un ens rationis esistente solo mentalmente.
Ma, a parte l’assenza nella cultura semitica, prima dell’avvento dell’ellenizzazione,
di dicotomie filosofiche quali naturale-soprannaturale, psyché/soma, natura/storia, spirito/materia,
etc. che sogliono essere applicate in sede
ermeneutica dappertutto nell’erronea convinzione che esse siano universali
e necessarie, nulla è fenomenologicamente riscontrabile nei vissuti
manifestativi di Yahweh da giustificare – a meno di manipolazioni
ad hoc
– l’assunzione puramente noetica e, quindi, trascendente dell’Altissimo.
Tali polarità sono sorte per opera di remoti fattori culturali già
attivi alle origini dell’Occidente, individuabili nell’urgente necessità
di far fronte cognitivamente ed esistenzialmente, con la crisi della
credenza mitico-rituale, alla gratuità disorientante e terrifica di
un divenire senza senso, inventando l’idea di materia come origine
di ogni male fisico e morale e opponendo
a questa l’assolutamente altro del noeton e dello pneuma disincarnati,
intesi e vissuti nella duplice funzione illuminante e riscattante
l’uomo e il mondo. In effetti, ad un’attenta lettura dei luoghi biblici
non emerge in alcun modo sia l’idea di una distinzione semitica tra
natura e storia
88
e sia quella, alquanto diffusa,
onde legittimare con l’invenzione dell’autonomia della natura
il superamento dell’errore pagano e l’avvento della libera ricerca
scientifica, che dopo la creazione dell’universo Yahweh si sia distaccato
da esso per intervenire, piuttosto, solo nel mondo degli eventi umani,
irrompendo, così, nel tempo irreversibile della storia.
89
È anzitutto difficile immaginare che un mondo creato
a fatica da una figura potente, sconfiggendo, probabilmente, in furibonde
battaglie entità avverse, ma non sopprimendole, com’è accaduto anche
a Yahweh, possa poi mantenersi integro e continuare ad esistere fino
all’Apocalisse senza una continua assistenza divina
90
, che nella logica e nell’economia mitico-rituale
significa e comporta la presenza reale benefica o malefica del Signore
nel mondo delle cose e degli uomini. Alla noetizzazione stessa dei
vissuti semitici del Dio si deve, inoltre, la nota attribuzione a
Yahweh di una vita eterna. Dal punto di vista fenomenologico, il vissuto
dell’eternità non è un vissuto rinvenibile all’interno di un modello
di tempo mitico-rituale, perché l’eternità è un’invenzione filosofica
greca per significare precisamente la modalità di durata di un’esistenza
collocata di là dallo spazio e del tempo, che potrebbe essere goduta
ragionevolmente solamente da noetà puri, da morphai prive di materia, vissuti e intesi metafisicamente come enti
esistenti di là dallo spazio e del tempo. Diversamente da un ostinato
luogo comune ermeneutico, il modello di tempo in cui si ordina la
successione dei vissuti mitico-rituali non è ciclico e nemmeno eterno,
ma reversibile, cioè pluridromo, nel senso che il corso degli eventi
in tale modello non è unidirezionale (monodromo), ma può svolgersi
in avanti o indietro, secondo le varie necessità mitico-rituali ;
e a tale modello di tempo si coniuga coerentemente un modello di spazio
in cui i vissuti della simultaneità non si ordinano prospetticamente
ma ubiquamente, come se una cosa, invece di essere presente ad un
osservatore per lati e per profili avvicendantisi nel tempo storico
uno dopo l’altro e uno diverso dall’altro, quindi irreversibilmente,
divenisse simultaneamente visibile da tutti i suoi lati.
91
Analogamente, la nota lezione personalistica del
Dio semitico è anch’essa il prodotto di un ibridismo culturale di
Yahweh con la coscienza (noesi) tipicamente egocentrata dei vissuti
greco-romani e ampiamente occidentali, che, indipendentemente da qualunque
giudizio di validità, fenomenologicamente sempre del tutto fuori luogo,
ha generato un silente e insolubile conflitto con la coscienza dei
vissuti in postura rivelativa, ove l’io, secondo l’analisi fenomenologica,
è, per ragioni d’essenza, assente nel vissuto umano e Dio è inteso
e vissuto semplicemente come coscienza potente. Pertanto, l’imporsi
progressivo nella cultura occidentale di un modo umano e divino di
essere coscienza come sinonimo di essere un io e un io personale,
in altre parole di una coscienza che pensa, sente e agisce autonomamente,
ha favorito la lenta cancellazione di quella postura rivelativa, propria
di una coscienza tipicamente eteronoma, che la fenomenologia ha indicato
come la condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per qualsivoglia
manifestazione sacrale. È allora evidente quale può essere il contributo
generale di un’analisi fenomenologica contrastiva sullo stato dei
vissuti rinvenibili nelle varie culture, vale a dire quelli mitico-rituali,
quelli filosofico-scientifici e quelli della fede, alla comprensione
dell’evento della secolarizzazione occidentale
e, soprattutto, a quello dell’attuale riduzione soggettivista del
rapporto tra l’uomo e il Sacro, intesa come conseguenza inevitabile
di una religione poggiante sulla fede degli esseri umani. Tutte queste consolidate
categorizzazioni per ibridazioni, in definitiva, rendono impossibile
e incomprensibile la scoperta fenomenologica di uno Yahweh costituito
da una hyle di consistenza atmosferica, quindi
aerea e volatile, come vento, soffio e voce, figurativamente non rappresentabile
senza “tradirne” l’intima indole, sebbene irriducibile alla camicia
di forza “o spirito o materia”. Ma è, soprattutto, il senso vissuto
di quell’assoluto iperrealismo mitico-rituale, su cui ho più volte
richiamato l’attenzione, che esige per coglierne il senso, altrettanto
iperreale, strutture spaziali, temporali e logiche ad esso
conformi, del tutto inaudite, e che suole essere interpretato, com’è
noto, nel suo contrario, come fola, metafora, licenza poetica ed espediente
retorico a fini persuasivi, preferendo, probabilmente per pigrizia
o a causa dell’amore dell’uomo per il meraviglioso, come scriveva
D. Hume, di gran lunga l’arcano al palese
non ovvio. Che per la ricostruzione culturale d’etnie disperse dopo
l’esodo di Babilonia, necessaria a fini identitari e di securizzazione,
e per le ragioni supreme di un riscatto nazionale, delle élites laiche e sacerdotali ebraiche abbiano
narrato delle gesta dei Patriarchi, dei successi della monarchia unitaria
centrata nella casa di David, l’unto da Dio, della grandezza sacerdotale
connessa a Yahweh (monoteismo), alla Sua Alleanza e all’erezione del
Tempio di Salomone (monotemplarismo), attingendo sicuramente alle
enciclopedie tribali della tradizione remota e recente, in altre parole
ad un patrimonio più o meno integro di credenze e di comportamenti,
di detti memorabili e di eventi epocali,
è un comportamento che va inteso e valutato solo a certe precise condizioni
ermeneutiche. Occorre, anzitutto, ribadire
che nelle culture a fondamento mitico-rituale ogni pensiero, ogni
sentimento, ogni azione dei singoli e delle comunità sono possibili
e comprensibili all’unica condizione di essere fondati e legittimati
da un mito piccolo o grande mediante la coniugazione reale e non simbolica
con i pensieri, i sentimenti, le azioni potenti rivelate dal mito
stesso e riattivate in carne ed ossa e ora come allora, ovunque e
sempre, ritualmente o spontaneamente. Emerge da tali analisi il radicale
capovolgimento di una consolidata gerarchia di valori, perché se ne
deduce che nelle culture a base mitico-rituale non sono le ragioni
del potere ad inventare ideologicamente i miti, onde perseguire i
propri fini “mondani”, ma sono piuttosto
i miti a fondare ed a legittimare il potere stesso perché, se essi
sono vissuti e intesi come rivelazioni sacrali, cioè autenticamente
potenti, sono eo ipso titolari
e donatori esclusivi agli uomini del potere stesso. Va precisato,
ancora, che i miti, sebbene funzionino come dei paradigmi veri e propri,
cioè come dei modelli percettivi, affettivi,
valutativi e operativi che elargiscono ai singoli e alle comunità
quel necessario set di significati
fondamentali garantiti, senza il quale si ritiene che non sarebbe
possibile vivere in misura umana, essi non vanno intesi come forme
vuote destinate ad ordinare e a connettere contenuti qualsivoglia,
analogamente agli astratti modelli relazionali mutuati dall’universo
della matematica, impiegati per descrivere e per prevedere nelle teorie
scientifiche gli svariati comportamenti della materia. Per il principio
del realismo segnico che regge, secondo la fenomenologia, la semantica
delle culture a fondamento mitico-rituale, le rivelazioni mitiche
– su qualunque supporto – non possono essere scisse in forma e materia
– tranne che in sede d’analisi - senza stravolgerle irreparabilmente,
perché sono costituite e operano iperrealisticamente nel senso fenomenologico
già enunciato
92
che allude all’indole presentativa e non rappresentativa
di tutti i segni mitici, cioè alla singolare
coincidenza – senza resti – del segno con i suoi significati e i suoi
referenti. È, così, comprensibile che l’impiego della potente espressione
mitica per elargire senso ed esistenza all’impotente mondo profano
comporta sempre una coniugazione reale - spontanea o ritualmente
sollecitata – senza confondere il Sacro con il profano, annullando,
così, la differenza, dell’azione compiuta dalla figura potente e rivelata
nel mito con l’analoga azione che nel mondo profano si desidera compiere,
e la cui efficacia dipende dalla riattivazione, ora come allora, dell’atto
mitico che, aderendo realisticamente mediante la ripetizione all’atto
profano, lo porta necessariamente – a Dio piacendo – a buon fine,
come avvenne appunto la prima volta con l’atto prototipico similare.
93
Gli accadimenti mitici, pertanto, sono degli invarianti
iperreali che, in quanto non simbolici, orientano e soccorrono cognitivamente
ed esistenzialmente le comunità umane ripresentandosi ora come allora
(tempo della ripetizione) e là dove occorrono (spazio dell’ubiquità),
dandosi ritualmente “in carne ed ossa”, cioè mediante la concreta
coniugazione dell’evento mitico, prototipico, con l’evento profano
analogo da assistere. Il granitico presupposto occidentale, assunto
come ovvio, di un’astratta razionalità teorica e pratica generata
unicamente dal dinamismo intellettuale ed operativo di un’autonoma
coscienza egocentrata che ha di fronte a sé un mondo naturale, retto
da leggi del tutto indifferenti, fraintende in blocco, quando si cimenta
ad investigarle, concezioni e prassi mitiche diffusissime, puntualizzate
qui fenomenologicamente, e occulta, soprattutto, l’indole necessitata
e cogente di esse all’interno di culture che non possiedono alcuna alternativa
per attingere e conservare senso ed esistenza – di cui si sentono
prive – oltre a quella di appellarsi all’intelligenza e alla volontà
di figure potenti non umane. Sarà, allora, evidente che l’indagine
antropologica di un sistema culturale a fondamento mitico-rituale,
finalizzata a cogliere le ragioni degli altri dal punto di vista indigeno
contrastivamente – vale a dire senza obbiettivarli e senza coincidere
con esse partecipativamente, come già chiarito
– potrà rilevare il senso genetico e strutturale di una credenza o
di un’azione qualsivoglia, sacra o profana, solo mediante la ricognizione
degli eventi mitici etnicamente archetipici, donatori primari di senso
a tutte le concezioni dell’universo profano, e le cui concrete riattivazioni
rituali, che si effettuano ripetutamente nel tempo e ubiquamente nello
spazio, finalizzano, guidano e rendono efficace l’intero plesso delle
attività umane individuali o collettive, che sono da intendere esse
stesse, persino quelle minute e quotidiane, sempre come vere e proprie
azioni rituali, dipendenti da precise liturgie e da rigorosi cerimoniali,
piccoli o grandi.
94
La guerra santa e l’herem d’Israele, ad es.,
che suscitano orrore e riprovazione nei seguaci delle dottrine pacifiste,
analogamente a qualunque attività bellica vissuta e intesa sempre
ritualmente nelle culture a fondamento sacrale, possiedono un riposto
statuto di senso – escludendo qualunque valutazione – che può essere
individuato solo risalendo al set
delle associazioni semantiche di un archetipo etnico, tra le quali
non è difficile scorgere la fondazione teorica e la legittimazione
operativa dell’attività bellica.
95
Alludo a certi grandiosi miti cosmogonici del Mediterraneo
Antico Orientale, anche se non tutte le guerre mitiche sono cosmogoniche,
come non lo sono, ad esempio, la lotta tra Baal, il dio della tempesta,
e il dio del Mare Yam o quella settennale tra Baal e il dio della
Morte Mot, stando ai resoconti mitologici delle tavolette di Ugarit,
o la lotta tra il grande dio nazionale ittita della tempesta e il
serpente Illuyankas, o lo scontro furibondo occorso tra gli Olimpici
e i Titani e quello di Zeus e il mostruoso Tifeo, narrati da Esiodo
nella Teogonia e, ovviamente,
tutte le battaglie apocalittiche. Sebbene privo
dell’imponente e rutilante spettacolarità dell’Enuma elish babilonese e assiro, che racconta la selvaggia e inizialmente
incerta battaglia tra il dio nazionale Marduk e Tiamat, la mostruosa
dea delle acque salse, infeconde e mortifere, affiancata da potenti
accoliti, dal cui immane corpo ucciso e squartato Marduk plasmerà,
poi, l’universo, un evento cosmogonico rinnovatesi annualmente il
4 del mese di Nisanu nel grande rituale dell’Akitu, la festa del Capodanno
a Babele, tuttavia anche il mito cosmogonico biblico rivela appena,
tra i versi iniziali, ma anche come dispersa e sempre allusiva altrove,
in molteplici luoghi delle Sacre Scritture, una sorda ostilità prototipica,
guerreggiata probabilmente fin dall’inizio tra Dio e il Caos tenebroso
e omogeneo delle grandi Acque, senza la cui violenta separazione in
alto come firmamento, in basso come terra e mare e senza l’irrompere
della luce il mondo non sarebbe mai potuto nascere. Sebbene la nozione
metafisica della creazione ex
nihilo è rinvenibile solo più tardi, nel noto passo di 2 Mac 7,
28, e sebbene sia probabile un’eco della cultura mesopotamica per
la quale la canalizzazione delle acque dolci nell’alluvio del Tigri
e dell’Eufrate e il controllo del mare, allora esteso molto verso
l’interno più di quanto suggerisca oggi la linea di costa del Golfo Persico, erano
comprensibilmente motivi di una costante occupazione mitico-rituale,
estranea all’ambiente israelita, l’idea che Dio non fosse solo prima
della creazione del mondo e avesse accanto e contro una presenza ierofanica,
sia pure indeterminata e indeterminabile, certamente avversa a qualunque
impresa creatrice che l’avrebbe destinata all’estinzione, anche se,
come sembra, non totale, è in contrasto, evidentemente, con il principio
monoteistico. Appare, in ogni modo, visibile sullo sfondo oscuro e
ambiguo degli inizi e restare poi integra, rigurgitando ossessivamente
nei successivi eventi conflittuali dell’esistenza umana e cosmica
di ogni tipo, una configurazione mitica fondamentale
che separa il positivo dal negativo cosmico e li oppone l’uno all’altro.
Da una parte, in alto, domina lo Spirito di Dio aleggiante sulle Acque
96
– un presumibile attributo, questo, inteso, di
norma, come esistente in sè
97
dall’iperrealismo mitico o come un duplicato di
Dio stesso, analogamente a tutte le ulteriori
epifanie celesti, aeree, chiamate Angeli, discendenti e ascendenti
– e che si rivelerà nelle azioni compiute come buono o come cattivo
98
, dall’altra, in basso, giacciono le Acque, l’Abisso
e le Tenebre del Caos con le loro molteplici manifestazioni mostruose,
come il Leviatano ( il Drago, il Serpente tortuoso, guizzante), Raab,
Behemot, il Coccodrillo,Tannin
99
, anch’esse da intendere quali probabili attributi
ipostatizzati come autonome esistenze o duplicati del Caos originario
stesso, ma come resti o come sottoprodotti, ancora malignamente attivi,
di un lavoro creativo enigmaticamente non portato a termine fino in
fondo.
100
Questa cupa ostilità archetipica tra il Cielo e
gli Inferi, tra l’aerea volatilità e la
grevità terrestre di tutto il resto che in vita striscia e
giunto alla fine sprofonda nello Sheol, quindi tra i vissuti salvifici dell’alto
e quelli distruttivi del basso, va collocata alla radice vissuta dei
culti delle vette come soglie di siti d’incontro con un Dio che suole
scendere dal Cielo, quando vuole parlare con gli uomini e soccorrerli
101
, e come vestiboli del cammino dei grandi morti
alla sede degli Antenati. Viene a configurarsi, in tal modo, l’area
di una tematica imponente, vissuta e assunta
come un invariante mitico-rituale etnico, altamente complesso e articolato
perché multifunzionale, destinato ad interpretare l’uomo e il mondo
insieme ai loro non facili rapporti con il Sacro, fornendo rivelativamente
alla comunità e ai singoli non solo tutto ciò che occorre e basta
per conoscere veritativamente, ma anche i criteri e le norme per agire
correttamente, fondando, legittimando e identificando, in definitiva,
le forme e i contenuti dell’enciclopedia tribale o etnica di una comunità
umana. Così è, in effetti, una riattivazione rituale del riposo del
Signore dopo la fatica cosmologica l’astensione assoluta dal lavoro e la santa convocazione
in onore di Dio nel settimo giorno della settimana, quelle sancite
anche per il primo giorno di quel settimo mese, ove ricadranno poi
i grandi rituali del giorno delle espiazioni, il dieci del mese, e della festa delle capanne, della durata di
sette giorni, il quindici, sempre, di questo settimo mese, l’anno
sabbatico di riposo assoluto per la terra e per l’uomo, dopo sei anni
lavorativi, e, infine, l’anno del giubileo, contati per sette volte
sette anni.
102
Tuttavia, come già anticipato, l’impiego ermeneutico
e ritualmente operativo di qualunque modello mitico alla comprensione
e alla gestione dell’uomo e del mondo profani non va inteso secondo
la lezione epistemologica egemone nell’Occidente moderno che il conoscere
e l’agire umani si realizzano coniugando forme astratte e vuote con
informi e inerti plena materiali. Data l’indole iperrealistica dell’universo dei segni
rivelativi che, per ragioni d’essenza, donano con un’unica manifestazione
e indistinguibilmente realtà e senso, rendendo possibili le manifestazioni
mitiche, la comprensione e l’azione nell’universo profano alla luce
dei dati e delle strutture costituenti i modelli e i paradigmi mitico-rituali
esigono l’unione reale e non puramente simbolica o metaforica nella
teoria e nella prassi (rito) degli eventi significativi
svoltisi negli spazi e nei tempi forti del mito (illo
tempore) con quelli auspicati o temuti negli spazi e nei tempi
significativamente deboli e quasi inesistenti dell’universo profano.
Una congiunzione culminante, di norma, nei noti fenomeni intrusivi
di qualsivoglia esistente da parte del Sacro benigno o maligno,
denominati possessioni e infestazioni, senza che ciò comporti
mai l’annullamento della differenza tra il Sacro e il profano, sebbene
gli eventi mitici, per ovvie ragioni d’efficacia, devono ripetersi
ora come allora e ubiquamente, cioè dappertutto, quando e dove le
supreme ragioni umane di senso e d’esistenza rendono necessario l’irrompere
salvifico del Sacro nel mondo. Inoltre, gli eventi mitici, proprio
perché paradigmi di senso e d’esistenza non formali, non possono scomparire
mai per mera dimenticanza, come suole accadere agli eventi profani
che dipendono dalla labile memoria dei singoli e delle collettività,
ma solo quando, svanita la cogenza con lo sbiadire della legittimazione
sacrale, essi implodono inevitabilmente su se stessi e, caduti in
rottami, sono abbandonati dai devoti e scompaiono, scivolando nelle
fratture del tempo. L’apparente irrazionalità – intesa, poi,
di volta in volta, in chiave mistica, estetologica, psicoanalitica,
psichiatrica, etc. – delle credenze mitiche e dei comportamenti rituali
non emana, per l’antropologia fenomenologica, dall’indole stravagante
dei dati, delle loro qualità e delle loro relazioni, ma dagli stravolgimenti
procurati inavvertitamente ad essi da tecniche analitiche che presuppongono
principi e criteri metodologici il cui reale raggio d’azione non è
stato indagato fino in fondo e che impiegano strumenti inadeguati
alla specifica ricognizione delle culture a base mitico-rituale. Il principio del realismo segnico o dell’iperrealismo,
ad esempio, scoperto dalla fenomenologia, il cui ruolo fondamentale
nei miti e nei riti è quello di renderli possibili e comprensibili,
significa e opera solo all’interno di vissuti impersonali, generando
spazi dell’ubiquità, tempi della ripetizione e logiche dell’identità
non parmenidea, tutte strutture di senso iperreali puntualmente stravolte
e annichilite da interpretazioni che, dando per scontati principi
del tutto alieni rispetto a quelli del realismo segnico, quale,
ad es., la norma della divaricazione occidentale tra segno, senso
e referente e, quindi, l’inevitabile erranza semantica dei segni,
leggono i miti e i riti attraverso le lenti colorate e deformanti
del simbolico e del metaforico, riducendoli in tal modo a gratuite
e ininfluenti stravaganze letterarie e comportamentali o a calcolati
espedienti per perseguire interessi ideologici o economici. Assunto, allora, con tutte le sue interne
articolazioni semantiche, il mito cosmogonico biblico come modello
interpretativo e come paradigma comportamentale, garantito da una
rivelazione potente, su tutto ciò che di negativo v’è
nella vita del mondo e dell’uomo cala una variegata maschera del male
che esibisce, come senso e come referente reali, le fattezze originarie
delle Acque, dell’Abisso e dei loro molteplici accoliti mostruosi,
figure potenti composte di residui caotici di una creazione non rifinita,
sconfitte, ma non uccise, e respinte nelle bassure del cosmo. Esse,
tuttavia, amano rigurgitare pericolosamente tra gli interstizi e le
crepe degli spazi e dei tempi del cosmo e, trascinando via ogni cosa
d’esistente, reinstallerebbero, dilagando nel Creato, la prototipica
condizione originaria della Notte caotica di prima degli enti, se
dall’alto dei Cieli non irrompessero a difesa, secondo il dettato
biblico, nei moduli sanciti, una volta per tutte,
da un prototipico conflitto cosmogonico che si deve rinnovare ora
come allora e ubiquamente, il Signore e le alate schiere dei Suoi
Angeli. È impossibile comprendere l’apparente assurdità di qualunque
interpretazione mitica dell’esistente e della sua operatività rituale,
fondate su di una coniugazione semantica e pragmatica reale tra eventi
mitici ed eventi profani, ritenuta come condizione necessaria e sufficiente
per la correttezza del conoscere e per l’efficacia dell’agire degli
uomini, senza cogliere fenomenologicamente il principio logico dell’identità
non parmenidea, cioè iletica e non noetica,
secondo cui, diversamente dalla logica occidentale standard, è sufficiente l’analogia, l’omologia e la mera contiguità
spazio-temporale tra gli enti o tra gli stati di enti per far scattare
una singolare identità di essi.
103
Ogni lotta dell’esistenza, piccola o grande, individuale
o collettiva, ad esempio, è miticamente e ritualmente vissuta e intesa
come ripetizione del conflitto cosmogonico, ove gli eventi mitici
si ripresentano coniugandosi realmente con gli eventi profani, attuando
nel rito l’operazione salvifica che, se accadrà, andrà in porto necessariamente
come accadde all’atto creativo stesso, compiuto dall’alto da Dio,
identificandosi, in tal modo, ileticamente con essi e dandosi come
identici e diversi contestualmente, senza che i vissuti sacri divengano
per ciò stesso profani e viceversa, e, quindi, sottraendosi del tutto
al principio di contraddizione, strettamente relato all’identità noetica. Sovralimentati e sovradimensionati dalla
rivelazione cosmogonica, l’acqua biblica e i mostri che vi abitano sono sottoposti a metamorfosi
semantiche molteplici e variegate per calzare, restando, sempre, se
stessi, le maschere del male radicale, dei nemici di Dio e degli uomini,
delle passioni che rovinano l’esistenza, delle malattie e della morte
senza riscatto.
104
Così la punizione esemplare per la violenza dell’uomo
sulla terra non può che essere il Diluvio Universale, attuato
da Dio riaprendo le fonti dell’Abisso e le cateratte del cielo che
aveva sigillate agli inizi e ripristinando in gran parte nel mondo,
con la rottura delle dighe di contenimento, il dominio acqueo della
condizione caotica.
105
Venivano, in tal modo, spiegate e giustificate
come sanzioni meteoriche divine, impiegando per articolazione un potente
archetipo mitico, le ricorrenti alluvioni medio-orientali improvvise
ed imponenti
106
, dalle quali, vissute come onde della distruzione
e della morte, solo Dio che, come farà Gesù, suole incedere sulle
onde del mare
107
, aleggiando altissimo prima del verbo cosmogonico,
può salvare, discendendo a volo radente, senza prendere terra, per
indicare, per mettere in guardia, per arbitrare, per giudicare, per
guidare il popolo, proteggendolo dai nemici e
spingendolo alla santità. Potenti gesta divine da intendere
tutte come azioni volte alla conservazione di quanto creato che, secondo
la logica e l’economia del modello mitico, può essere conseguita solo
mediante la ripetizione puntuale, ogni volta che occorre, delle azioni
prototipiche cosmogoniche. Così il Signore che cavalca nei cieli eterni,
assiso sulla tempesta, scatenerà sempre con forza il tuono giù negli
abissi
108
per atterrirli e sull’immensità delle acque
109
per arginarle, quando esse staranno per inghiottire
o per sommergere i Suoi devoti
110
e, in tal senso, è noto che accogliendo l’invocazione
di David, circondato dai flutti della morte e avviluppato nelle funi
degli inferi, Dio si sia librato sulle ali del vento, cavalcando un
cherubino, e “dall’alto stese la mano e mi prese; mi fece uscire dalle
grandi acque”.
111
Le nazioni straniere false e menzognere
112
, che sogliono saccheggiare e depredare una piccola
comunità umana come Israele, sono sovente popoli immensi, vissuti
e intesi miticamente come lo scroscio fragoroso di molte acque che
scorrono veementi, trascinando via ogni cosa, o come i mostri
– Raab
113
, il Leviatano, Tannin, il grande Coccodrillo
114
, etc. – che le abitano, ma simili nazioni, per
quanto potenti e superbe, finiranno tutte con l’essere disperse sui
monti dal Signore degli eserciti “come pula dal vento”
115
. Tutte le guerre, pertanto, sono vissute ed intese
miticamente come guerre sante combattute contro il Male alla presenza
e sotto la guida del Signore degli eserciti ed esse vanno ritualmente
intese ed eseguite come la reiterazione cerimoniale dello scontro
prototipico rivelato dal mito cosmogonico conclusosi con la vittoria della potenza creatrice e la sconfitta
della potenza caotica e distruttiva. Ma se le vittorie sono, ovviamente,
vittorie del Signore e l’herem,
di fatto, dona ritualmente a Lui quello che
è dovuto, le sconfitte degli eserciti e la rovinosa caduta d’Israele
sono vissute e intese miticamente come punizioni divine
116
da attribuire o al semplice abbandono di Dio
117
o, addirittura, al suo diretto intervento devastante
a fianco dei popoli aggressori che, in questo caso, diventano addirittura
“la spada di Yahweh”, vendicatrice dell’infedeltà di un
popolo che ha tradito il Patto stipulato da Mosè con il Dio
degli eserciti, e che spesso verranno anche impiegati per distruggere
i popoli che opprimono Israele.
118
Il vissuto dell’ostilità
mitica con l’elemento acqueo si ripresenta integro in altri significativi
accadimenti e, anzitutto, all’interno del grande racconto dell’Esodo
e della conquista di Canaan, che è ritenuto da M. Liverani “una formula”
in cui il clima generato dalle deportazioni assire e da quelle babilonesi,
saldatosi “con le storie patriarcali di transumanza pastorale tra
il Sinai e il Delta del Nilo, con storie di lavoro coatto di gruppi
di habiru nelle imprese edilizie dei Ramessidi”,
si fissava miticamente tra il VII e il V secolo prefigurandolo, per
così dire, nell’evento prototipico dell’uscita improvvisa di Abramo
da Ur dei Caldei per comandamento di un dio ignoto.
119
Certamente “l’immagine del deserto, nel complesso
Esodo-Numeri non è di tipo pastorale, dove le tribù vivono a loro
agio”, e l’evidente stato di profonda sofferenza per gli stenti e
per i pericoli della vita nomade, testimoniato ampiamente nel racconto,
poteva nascere e alimentarsi solo nella mente e nel cuore di comunità
d’ambientazione cittadina.
120
Tuttavia, l’essenza di questa grande configurazione
mitica, indubbiamente postesilica, non si alimenta, a mio avviso,
attingendo semplicemente ai vissuti nomadici o seminomadici del deserto
e della steppa alla perenne ricerca di “pascoli verdi”, che, di certo,
stanno nello sfondo dell’Esodo come indispensabile scenario drammatico
di un inaudito cimento, ma, soprattutto, ai vissuti del grande archetipo
umano di un possibile riscatto radicale, che nella formula mitica
risalente all’epoca di Giosia, colpa-punizione- pentimento-perdono-salvezza,
dopo il disastro del 587 a.C., sembra imposto all’uomo imperscrutabilmente
dall’alto con la voce di un imperativo misterioso, quando l’esistenza,
divenuta servile, corrotta e miserabile, appare intollerabilmente
indegna di essere vissuta. Esso ordina “l’Esodo”, cioè,
anzitutto, una violenta lacerazione che svelle definitivamente l’uomo
colpevole e inerte dalla infelice condizione in cui trascina i suoi
giorni per sottoporlo ad un lungo travaglio di prove fisiche e psichiche
estenuanti, prima di toccare, se superate, la Terra Promessa, raggiungendo
in tal modo la salvezza. Il celebre passaggio del Mar Rosso o del
Mar dei Giunchi, ove Dio apre una strada
asciutta elevando ai fianchi di un popolo in fuga due muraglie d’acqua
che poi si rovesceranno caoticamente sugli inseguitori, trascinandoli
negli abissi della morte
121
, o l’arresto dalla parte superiore delle acque
del Giordano, che fluivano gonfie fin sopra tutte le sponde, all’entrata
dell’Arca nell’acqua durante l’attraversamento del popolo guidato
da Giosuè
122
, o le brecce aperte dal Signore tra le schiere
nemiche, intese come brecce aperte dalle acque
123
, o ancora il transito del Giordano da parte di
Elia che si aprì un cammino sull’asciutto separando le acque sotto
i colpi del suo mantello arrotolato
124
, o persino il sentiero asciutto che tra una marea
e l’altra guida i pellegrini a Mont-Saint-Michel in Normandia, sono
indubbiamente azioni umane rese comprensibili e possibili solo perché
coniugate con le letterali riattivazioni del mito della separazione
delle Acque, da cui ha avuto origine la vita stessa. Per
quando alto sia il fragore delle grandi acque “più potente dei flutti
del mare, potente nell’alto è il Signore”.
125
È, quindi, emerso che Yahweh, di remota
origine nomadica tribale ed etnica o di tarda matrice cittadina esclusivamente
postesilica, assunto come Signore degli eserciti che impone e guida
il riscatto nazionale di una comunità di reduci, già privati della
propria patria ed oppressi in terra straniera, gode dell’epiteto d’Altissimo
non perché abiti o soggiorni transitoriamente sulle vette dei monti,
ove preferisce rivelarsi, ma per l’intimo motivo mitico che Egli prima
che il mondo venisse alla luce si librava
da sempre al di sopra di qualunque bassura abissale e acquea. Se,
da una parte, l’altezza della vetta può pure essere una condizione
sufficiente perché sia frequentata da un Dio uranico che aduni le
nubi e rappresentare un sito, per così dire, strategico per l’incontro
tra l’uomo che sale e il Sacro che discende, dall’altra essa non rappresenta
in alcun modo una condizione necessaria. Si narra certamente che Salomone
si sia recato a Gàbaon per offrirvi sacrifici e bruciare incenso perché
ivi sorgeva la più grande altura e, dopo l’offerta di mille olocausti, il Signore
gli apparve puntualmente in sogno durante la notte, concedendogli
saggezza, ricchezza e gloria.
126
Tuttavia, qualsivoglia luogo, se ivi si rivela
Yahweh o le Sue molteplici epifanie, diventa, per ciò stesso e sempre,
per intrinseche ragioni mitiche, una montagna altissima e cosmica,
in altre parole un Axis Mundi, com’è testimoniato nel celebre sogno durante la santa
incubazione dell’ignaro Giacobbe, addormentatosi a Betel su una pietra
presa a caso come guanciale, ove la visione della scala tra cielo
e terra, discesa e salita dagli angeli di Dio, divenne per lui l’indubbia
prova che quel terribile sito, non specificamente montano, era “la
casa di Dio e la porta del Cielo”.
127
Non solo, quindi, la pietra innalzata e unta cultualmente
da Giacobbe come betel è un luogo “altissimo”perché Dio
trovasi in ogni modo presente e va incontro ai fedeli, ma lo è, anche,
qualunque tempio o santuario come valenza cosmica e come vero e proprio
Axis Mundi, inteso come un canale di comunicazione
tra il profano impotente e il Sacro potente.
128
La formula del voto di Giacobbe, presa come un
esempio tra mille altri, mi consente, ora, di chiudere la presente
analisi con la ripresa fenomenologica di un’incongruenza ermeneutica,
invisibilmente operante nella cultura occidentale, che, sebbene l’abbia
introdotta fin dall’inizio, va riproposta conclusivamente all’attenzione
perché il senso dell’intero discorso qui svolto presuppone il disoccultamento
di essa e delle sue svianti conseguenze semantiche, nell’area dell’ermeneutica
del Sacro dove esse si trovano, auspicandone la rimozione. È noto che noi sogliamo parlare comunemente
di luoghi, di persone, di oggetti, qualificandoli
come sacri; ma cosa intendiamo esattamente quando affermiamo la sacralità
di un albero, di una pietra, di un monte, di un’icona, di una statua,
della tomba di un martire ? Per sopprimere “un certo disagio”, cui
alludeva Mircea Eliade, cioè il malcelato
timore “di cadere nel paganesimo”, se si venerano pietre, alberi o
pezzi di legno in se stessi, lo storico delle religioni rumeno pensò
di proporre una definizione della ierofania che, a mio avviso, può
essere assunta come canonica per la cultura occidentale : “la manifestazione
di qualcosa di completamente diverso, di una realtà che non appartiene al nostro
mondo, in oggetti che fanno parte integrante del nostro mondo ‘naturale’,
‘profano’”.
129
Che una simile definizione, invero alquanto contorta,
vada confinata all’interno del perimetro della cultura occidentale,
lo si deve al rilievo fenomenologico, già anticipato, che i principi
e i concetti presupposti e operanti in questa formulazione e in altre
consimili sono, di norma, assenti nelle culture a fondamento sacrale,
tra le quali va annoverata anche quella di matrice ampiamente semitica.
La decostruzione fenomenologica dei vissuti dell’idea di natura e
delle leggi naturali mostra una specifica
costituzione di senso ove è possibile individuare, come elementi essenziali,
l’indole fenomenica e quindi intimamente insatura dei suoi dati manifestativi,
l’esistenza nel cuore di questi di un nocciolo materico informe, oscuro,
inanimato, estraneo di principio all’altra componente, quella noetica,
destinata come morphè a
svolgere in maniera esclusiva l’eminente e indispensabile attività
di saturazione cognitiva ed esistenziale dell’universo fenomenico,
elargendo, in qualità di logos, alla materia informe e disorganica
in sé, un ordine e una connessione significanti. L’idea, ora, del
soprannaturale come una sfera d’esistenza che trascendendo del
tutto gli spazi e i tempi della natura – qualificata in Occidente
senz’altro come “profana” – pensa un dio ganz
Andere, identifica, per la fenomenologia, un mero noetòn, perché attinge dalla noesis
del razionalismo ellenico tutti i suoi più eminenti connotati, tra
i quali quello dell’immaterialità come puro spirito, che sottraendolo
necessariamente alle deficienze fisiche e morali di quel nocciolo
materico, presente in ogni esistenza sensibile, responsabile di tutti
i mali fisici e psichici del mondo naturale, lo significa, appunto,
come l’assolutamente Altro. Ma l’analisi dei vissuti sacrali ha mostrato
che Yahweh, nei Suoi rapporti positivi o
negativi con gli esseri umani, non è in alcun modo riducibile ad un
noetòn trascendente che ama sottrarsi a
loro per evitare la contaminazione con una materia silente nel grembo
di una natura abbandonata a se stessa dopo l’atto creativo. Un’idea
di natura, questa, che, insieme, a mio avviso, a quella di storia,
sono semiticamente inesistenti e, a mio avviso,
fenomenologicamente impossibili. Yahweh, in realtà, non è inaccessibile all’intero
plesso dei sensi, ma preferisce, di gran lunga,
manifestarsi attraverso la voce e l’udito piuttosto che l’immagine
e la vista, impiegando come veicolo una realtà sonora, e, dato il
notorio Suo ruolo di consulente e di salvatore, deve essere presente,
senza soggiornare necessariamente in maniera definitiva, con o senza
epifanie angeliche, stando a diffusissime testimonianze bibliche,
in luoghi o in enti animati e inanimati reali qualsivoglia. L’aniconismo
ebraico, pertanto, non avrebbe nulla a che vedere con il vissuto della
trascendenza di Yahweh, ma con quello mitico della Sua “santità” anticananea,
che gli impone d’essere presente dovunque e quando lo voglia, senza
mai coincidere iconicamente, per così dire, con le forme delle realtà
in cui trovasi e da cui, rivolgendosi ai devoti, parla, cercando di sottrarre,
in tal modo, l’uomo alle tentazioni di praticare quel culto idolatrico
che, beninteso, è aborrito non perché la statua è fatta di materia
in senso ellenico, ma perché rappresenta un dio che, a differenza
di Yahweh – che è il solo che è – è ingannatore e corruttore
perché non esiste. Anche l’identificazione di pagano con naturale,
quindi con mondano, e l’idea conseguenziale di una religione pagana
come religione naturale, rigorosamente distinta da una religione rivelata,
sono per la fenomenologia concezioni tipiche di culture che,
come quelle occidentali od occidentalizzate, avendo smarrito il ruolo
e la funzione generali e ultramillenari della postura rivelativa nella
storia dell’uomo e, confondendo rivelazione e rivelazione sacrale,
fenomeno e rivelazione, ignorano il principio d’essenza che tutte
le religioni devono possedere necessariamente una base rivelativa
e non fenomenica perché un dio possa manifestarsi, rivelandosi all’uomo
in qualsivoglia modo. È, insomma, fenomenologicamente emerso,
che la componente propriamente reale – cioè,
usando l’antico termine greco, la hyle
– dei vissuti rivelativi non
è in alcun modo identificabile con la componente reale presente nei
vissuti fenomenici, intesa, a partire dai Greci, come materia, cioè
come un nocciolo oscuro, impenetrabile, informe, insensato, atono,
etc. giacente nel fondo di ogni esistenza, del tutto scisso da una
noesis, pensata e vissuta
come la componente intelligente e volitiva in maniera esclusiva dei
vissuti fenomenici ed opposta alla materia come negazione di essa.
La hyle
rivelativa, invece, sebbene analogamente alla hyle fenomenica, cioè alla materia, eserciti anch’essa il ruolo e
la funzione di componente non intenzionale del vissuto, è, anzitutto,
del tutto priva dei predicati sopra elencati che significano la hyle fenomenica, identificandola come materia, ed è inscindibile dalla
noesis intenzionale donatrice di senso.
Secondo la fenomenologia, essa esercita in maniera esclusiva la funzione
fondamentale di portare a manifestazione l’esistente in generale
130
. Pertanto, se la realtà esibita dai vissuti rivelativi
è altra rispetto a quella rinvenibile nei vissuti fenomenici, diventa,
allora, del tutto superfluo il quesito se Dio sia
realmente presente nella vetta di un monte, in una roccia, in un albero,
in un oggetto fabbrile, oppure no, se possa assumere le forme degli
enti durante il Suo temporaneo soggiorno sulla terra ed essere così
raffigurabile o meno, dopo che l’analisi fenomenologica ha mostrato
che i vissuti delle culture a fondamento mitico-rituale ignorano le
concezioni naturalistiche od oggettivistiche del reale e non possono
essere intesi impiegando simili aliene strutture di senso. Solo, allora,
a mio avviso, sarà possibile rimuovere, estirpandolo – si spera -
alla radice, quel “disagio”, cui alludeva Eliade, che, per quanto
privo di consistenza reale, ha sempre alimentato e alimenta
secolari pregiudizi valutativi, persino anche presso certi addetti
ai lavori, nei confronti delle credenze e dei comportamenti “magici”
e “superstiziosi” delle popolazioni “pagane” della Terra.
1 Sal. 121, 1.
2 L’invisibilità, cui alludo, è dovuta, eminentemente, all’irresistibile strapotere
dell’immagine e, in generale, al riduzionismo estetologico nell’odierna
cultura cosiddetta postmoderna.
3 Mi permetto di rinviare a due miei testi “I selvaggi e noi. Una relazione conoscitiva inedita”, in La diversità in età moderna e contemporanea, a cura di L. Cavazzoli, Name, Genova 2001, pp. 105-117 e Per un trattato fenomenologico di antropologia culturale, (http://www.hieros.it/conci/index.htm).
8
Mi permetto di
rinviare al mio saggio “Tra apparire ed essere, Fenomenologia
della natura come segno culturale occidentale”, a cura di M. Sanchez
Sorondo, Physica, Cosmologia, Naturphilosophie: nuovi
approcci, Herder - Pontificia Università Lateranense, Roma 1993.
La manifestazione fenomenica, impostasi in Occidente fin dall’alba
della grecità, ove per principio l’apparire e l’essere non coincidono,
è insatura e la necessaria saturazione, sempre relativa, la si raggiunge
di norma con strutture di senso particolari, cioè operando con modelli spaziali prospettici, con modelli temporali
irreversibili, cioè “storici”, con logiche basate sul principio
noetico d’identità (A=A), di natura autoreferenziale, di remota
origine parmenidea. Tale complesso lavorìo esercitato sull’intero
campo fenomenico da parte di un logos
pensato ad hoc, approda
alla polarità generale soggetto-oggetto. La manifestazione rivelativa,
viceversa, è satura a priori perché in essa
apparire ed essere coincidono necessariamente e ciò implica che
i segni rivelativi sono, per il principio del
realismo segnico che sancisce l’indistinzione tra segni, significati
e referenti, realissimi per eccellenza, cioè iperreali. Il termine
iperreale allude all’indole presentativa
del segno, propria del realismo segnico, a differenza dell’indole
rappresentativa dei segni nell’opposta semantica della divaricazione
tra segno, senso e referente, ove per realismo s’intende l’effetto
mimetico riuscito del segno. Tali dati si rivelano sempre ordinati
in modelli spaziali non prospettici, ubiqui, e in modelli temporali
non storici, reversibili (tempi della ripetizione). Il principio
identitario della logica rivelativa è, inoltre, d’indole iletica
nel senso che sono vissuti ed intesi come identici enti o stati
di cose che per una logica dall’identità noetica
sarebbero solo analoghi (similarità di contenuto), omologhi
(similarità di forma) o contigui nello spazio o nel tempo. Nei vissuti
rivelativi, per altro, non sono rinvenibili mai, per ragioni d’essenza,
polarizzazioni come quella “soggetto-oggetto”,
fatti salvi stati d’ibridismo culturale (come in Occidente). Fenomeno
e rivelazione sono, quindi, per la fenomenologia
modalità manifestative che non devono essere confuse in alcun modo,
anche perché sono reciprocamente incommensurabili nei loro dati
e nelle loro strutture di senso.
9
È, pertanto, opportuno impiegare
l’iniziale maiuscola solo quando si parla
di una rivelazione sacrale.
10
In definitiva la manifestazione fenomenica
non è altro che una manifestazione rivelativa collassata perché
ha smarrito l’identificazione di apparire ed essere (la physis ama nascondersi) e quindi il fondamento di quel realismo inaudito
che, appellandomi al principio del realismo segnico, ho chiamato “iperrealismo”.
11
Ripeto che impiego sovente i termini
“iperreale”, “iperrealismo” in quel preciso significato fenomenologico
che intende l’indole identificativa e presentativa del rapporto tra il segno,
il senso e l’ente di riferimento e non quella meramente rappresentativa
cui alludono in Occidente termini, apparentemente simili, quali
“realismo”, “reale”, riferibili all’adeguatezza dell’imitazione.
12
Onde evitare possibili equivoci,
va precisato che anche il dato rivelativo, analogamente a quello
fenomenico, può presentare lacune, sovrapposizioni e contrasti nel
campo manifestativo. Ma mentre il dato rivelativo va integrato,
corretto, corroborato e interpretato appellandosi sempre ad ulteriori
rivelazioni, il dato fenomenico, la cui modalità di apparizione
lo mostra come una rivelazione collassata – non a caso compare agli
inizi della storia dell’Occidente all’indomani della crisi del sistema
mitico-rituale in generale e, quindi, coevo all’implosione della
postura rivelativa medesima - può essere trattato solo appellandosi
ad un logos inaudito privo
di base rivelativa che impiega modelli d’ordine e di connessione
dei dati fenomenici operando dall’esterno di questi e trasmesso
da una coscienza egocentrata.
13
Fides et ratio, op.cit., n. 13.
14
Ibid., p.79.
15
Cfr. C.H. DODD, The Bible and the Greeks, Hodder & Stoughton,
Londra 1964, pp. 198 e ss.
16
Fides et ratio, op. cit., n. 35, n. 97.
17
Sono rivelazioni profane tutte quelle
che, annunziando l’intero plesso degli aspetti negativi dell’esistenza,
manifestano l’impotenza totale dell’uomo e del mondo se sono abbandonati
inermi a sé stessi.
18
È doveroso precisare che lo stato
di cose qui denunziato non è dovuto ad
errori ermeneutici, ma è stato indotto da potenti e inevitabili
condizionamenti culturali.
19
L’attività distruttiva del tempo
può divertirsi a cancellare un mito salvando il rito e viceversa.
E questo complica non poco l’ermeneutica generale del mito
e del rito. Distrutto il rito, il mito corrispondente può essere
facilmente frainteso come racconto fiabesco, discorso metafisico-teologico,
etc., mentre, con la scomparsa del mito, il rito si tenderà a
ridurlo alla sfera dei comportamenti magici e “superstiziosi”.
20
Mi riferisco a certe testimonianze
offerte da alcune tavolette di Mari (inizio II millennio).
21
P.R.S. MOOREY,
Un secolo di Archeologia Biblica,
Electa, Milano 1998, p. 62.
22
M. LIVERANI, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele,
G. Laterza & Figli, Bari 2003, p. 309.
23
E. ANATI, Har Karkom. Montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Jaca Book, Milano
1984.
24
Es 24,4. La scelta del numero dodici per
le tribù d’Israele è connessa con i mesi dell’anno e si fonda su
esigenze liturgiche templari (cfr. G. GARBINI, op.cit.,
pp. 169-174).
25
Es 33, 18-23.
26
1 Re 19, 9-18.
27
E. ANATI, op.cit.,
p. 121.
28
P.R.S. MOOREY, op. cit., p.128.
29
Ibid., p. 129.
30
Cfr. la voce “agriculture” in Archaeological
Encyclopedia of the Holy Land, ed.
By Avraham Negev and Shimon Gibson, Continuum,
31
Lo scavo archeologico ha, del resto,
accertato, per esempio, che Gerico era deserta di
abitanti nel XVII e nel XVI sec. e, dopo il XIV secolo, quando,
secondo il racconto della mirabolante caduta, Giosuè l’avrebbe conquistata
con il crollo delle mura al suono delle trombe (Tarda Età del Bronzo
II) in quell’area, ridotta ad un cumulo di rovine, non sarebbe esistito
alcun insediamento abitativo vero e proprio, ad eccezione di qualche
capanna isolata (cfr. la voce “Jericho”
in Archaeological Encyclopedia,
op.cit. e P. R. S. MOOREY, op. cit., p. 56).
32
M. LIVERANI, op.cit.,
pp. 404 e ss..
33
Il tempio e il palazzo di Salomone
sono ritenuti progetti d’età persiana, proiettati retrospettivamente.
L’archeologia esclude costruzioni di tali imponenti dimensioni,
perché esse superano di molto lo spazio disponibile nella Gerusalemme
del X secolo (Ibid.,
p. 112).
34
Ibid., p. 358.
35
Con tale termine, da tradurre “anatema”,
s’intende la distruzione rituale del nemico, essendo tutto votato
a Yahweh che è sempre l’artefice unico d’ogni vittoria.
36
Va ricordato, per altro, che, verso
la fine del V secolo a. C., prese forma
a Sichem, sul monte Gerizim, un tempio dedicato a Yahweh, le cui
credenziali non erano, certo, meno valide di quello di Gerusalemme.
37
M. LIVERANI, op.cit.,
pp. 194-195.
38
È nota la presenza di culti non yahwistici
nel tempio stesso di Salomone, rivolti a Baal, Asherah, al Sole,
alla Luna e ad altre divinità astrali.
39
Ibid., p. IX.
40
Ibid., p. 87.
41
Ibid.,
pp. 74-76.
42
V. HAAS,
Hethitische Berggoetter und
hurritische Steindaemonen. Riten, Kulte und
Mythen, Philipp von Zabern, Mainz am Rhein 1982, p. 12.
43
Cfr. R. PETTAZZONI, L’onniscienza di Dio, Einaudi, Torino 1955, pp. 23 e ss.. Cfr. Lv, 26, Dt, 28.
44
P. MERLO, La dea Ashera. Un contributo alla storia della religione
semitica del Nord, Pontificia Università
Lateranense Mursia, Azzate (Varese) 1998, p. 23, p. 27.
45
Ibid., p.133, pp. 213 e ss..
46
Dt. 2,3; 16,21.
47
V. HAAS, op.cit., p. 105.
48
P. MERLO, op.cit.,
p.134, p. 224.
49
Intendo con tale
espressione una logica, d’origine occidentale, basata sulla legge
d’identità autoreferenziale – fenomenologicamente qualificabile
come “noetica” – per cui un ente è identico solo a se stesso. Qualificherò,
in seguito, come “iletica” un tipo di logica altra – rinvenibile
nei sistemi a fondamento mitico-rituale – che si fonda su una legge
d’identità non autoreferenziale, per cui
enti o stati di cose possono essere ritenuti senz’altro identici,
se sono analoghi (per contenuto), omologhi (per forma) o semplicemente
contigui nello spazio o nel tempo.
50
Sebbene le varie culture vedono probabilmente
le stesse cose, ma le interpretano in maniera diversa, tuttavia,
come già anticipato, essendo di gran lunga
più imponente e determinante, nei rapporti tra l’uomo e il mondo,
la componente interpretativo-costruttiva, rispetto a quella informativa,
ciò suscita il convincimento irresistibile che esse vedono cose
differenti.
51
Il pluralismo religioso è difficilmente
estirpabile, specialmente nella cultura cosiddetta popolare, e il
culto di Yahweh, per sopravvivere, sarà sceso probabilmente a compromessi
con i potenti culti di Ba’al e di Astarte,
sia pure con alterne vicende, come, del resto, testimonia ampiamente
la Bibbia. Mi riferisco ai culti agrari palestinesi della fertilità
con bamot (santuari sulle alture), stele di pietra (massebot) e aserot/aserim (tronchi decorati?)(cfr. M. LIVERANI, op. cit., p. 135, p. 155).
52
G. FURLANI, La religione degli Ittiti, N. Zanichelli, Bologna 1936, pp. 36 e ss..
53
Ad Ugarit, per es., la montagna era considerata sacra per se stessa.
54
Mi permetto di rinviare al mio articolo
“I rapporti mitico-rituali tra cielo e terra fino alla prima Età
del Ferro” in I riti dell’acqua
e della terra nel folklore religioso, nel lavoro e nella tradizione
orale, a cura di A. Achilli e L. Galli, Edup Roma, Roma 2006, pp. 295-316.
55
2 Mac 5, 15-20; Ez 10, 18-22; 11, 22-25.
56
1
Sam 28, 6.
57
Gen 28, 17. Michea afferma di aver visto il Signore seduto in trono
circondato da tutto l’esercito del Cielo (1Re, 22, 19).
58
Es 33, 23.
59
Es 33, 18-23. Non meno pericoloso è, comunque,
ascoltare la voce di Yahweh (Dt 4 , 33).
60
Gen
18.
61
Gen 22.
62
Gen
32, 23-33.
63
Es 3.
64
Es 12,
29-34.
65
1Cr
21, 14-17.
66
Tb 12,
15-22.
67
Es 13,
21-22; Nm 9, 15-23.
68
Es 19,
16; 20, 18.
69
Es 23,
28.
70
Gs 5,
13-15.
71
2 Re 19, 35; 2 Cr 32, 20-23.
72
Is 10, 5-7; Ger 51,20; 50,23.
73
2 Mac 3, 24-34; 10, 29-30; 11, 6-11; 12, 22.
74
Dn 3,
48-50; 6, 22-23.
75
Dt 4
10-31.
76
Es 19,
16-18.
77
2Cr
5, 11-14.
78
Dt 5,
24-26.
79
1 Sam
16, 14; 18, 10.
80
Gen 1,1.
81
Gdc 13,
17-25.
82
1 Re
19, 11-13.
83
1 Cr
14, 15; 2 Sam 5, 24.
84
Ez 37,
1-14.
85
Es 19,
20-25.
86
Dt 32, 48-52.
87
Così, la terra sussulta, i monti
fumano e il fuoco brucia d’intorno tutti
i nemici d’Israele non perché vi abita Yahweh, ma perché Egli l’ha
solo guardata, perché ha appena toccato le vette e perché avanza
contro i nemici stando dietro al fuoco (Sal
104, 32; Sal 97, 3).
88
Cfr., ad es., Is
13; Is 41.
89
Cfr. Gb 38, 39, 40, 41.
90
Cfr. Sal 104. “O forse i cieli mandan rovesci da sé ?”
(Ger 10, 12-13; Ger 14, 22; Ger 51, 16).
“Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi
? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza ?” (Sap 11,25; Gl 2, 21-27).
91
Questa singolare modalità figurativa,
denominata in sintesi “ubiquità”, è la norma nelle culture non occidentali
e ricompare, in una certa misura, in Occidente con la crisi della
concezione prospettica e l’avvento del Cubismo. Costituisce, in
realtà, una delle prove fenomenologiche più evidenti dell’assenza
di quel testimonio oculare, cui alludeva E.H.
Gombrich, che va inteso fenomenologicamente come coscienza priva
della polarità egologica su cui costruire la prospettiva. Mi permetto
di rinviare, inoltre, al mio articolo “Tempi sacri e tempi
profani nelle culture a fondamento rivelativo. Analisi fenomenologiche”,
Annuario filosofico, vol. XVII, Mursia ,
Milano 2001, pp. 135-189.
92
Vedi nota 8.
93
Per costruire, ad es., una nuova piroga secondo teoriche e pratiche mitico-rituali
e perché possa riuscire bene non è sufficiente, oltre ai materiali
necessari e agli strumenti idonei, la perizia tecnica, elargita
sempre alla comunità da un Eroe Civilizzatore tribale rivelativamente,
ma occorre sempre invocarlo concretamente perché intervenga, cantando,
magari, ritualmente il mito ergogonico che narra l’evento dell’invenzione
della piroga. L’artigiano non lavora mai da solo,
ma opera insieme all’Eroe culturale che penetra, se vuole,
nel mondo impotente profano, possedendo, addirittura, l’uomo, pur
senza annullarsi in lui. Così la nuova piroga è intesa, secondo
un principio identitario non parmenideo, come contestualmente identica
e diversa, rispetto a quella prototipica del mito. Cfr. per il termine “parmenideo” la nota 49.
94
I pensieri, i sentimenti e le azioni
umane possiedono, in tal caso, una portata cosmica più o meno imponente
che l’uomo delle culture secolarizzate può difficilmente comprendere
in modi letterali e propri.
95
Mi permetto di
rinviare al mio saggio “La guerra degli Angeli. Contributo
ad una fenomenologia dei vissuti bellici”, Annuario
filosofico, XV, Mursia, Milano 1999, pp.43-81.
96
Gen 1, 2.
97
L’ipostatizzazione
dell’aggettivo è una concezione, a mio avviso, generalizzabile a
tutti gli universi culturali a fondamento mitico-rituale. Nell’Oriente
Antico era, comunque, comune.
98
1 Sam 16, 14-15.
99
Gb 3, 8; 26, 13; 40, 25; 41; Is
27, 1; 51, 9; Am 9, 3;
Sal 74, 13-14; 89, 11; 104, 26; Gb 9, 13.
100
Mi permetto di rinviare al mio testo
“Il Drago di San Michele. Fenomenologia dei vissuti
originari del male”, in Bene,
Male, Libertà, Seconda Navigazione.
Annuario di filosofia 1999, a cura
di V. Possenti, Mondadori, Milano 1999, pp. 261-290.
101
Gen 28, 17.
102
Lv 23, 3; 23-36. Lv 25,
A-B.
103
Cfr. la
nota 49.
104
Come il futuro Sargon di Akkad, esposto alle onde di un fiume in una cesta di canne
impeciata, intorno al 2600 a.C., fu salvato da un addetto alle irrigazioni,
anche Mosè, abbandonato alle onde del Nilo in un cestello di papiro,
spalmato di bitume e di pece, fu sottratto miracolosamente alla
morte dalla figlia del Faraone (Es
2, 1-10).
105
Gen 8, 2.
106
P.R.S. MOOREY, op.cit., p. 68.
107
Gb 9, 8.
108
Sal 77, 17-21.
109
Sal 29, 3-11; Sal
68, 34.
110
Sal 32, 6-7; Sal 104, 5-9.
111
Sal 18; 2 Sam 22.
112
Sal 144, 7-8.
113
Is 51, 9.
114
Ez 29, 3; Ez 32.
115
Is 17,
13-14.
116
Ger 50;
Dn 3, 37.
117
1 Sam
28.
118
Ez 26
e ss.; Ez
32. Le
analisi fenomenologiche non concordano con l’usuale lezione che
attribuisce alla cultura ebraica la scoperta della storia. La Bibbia,
in realtà, presenta delle liste genealogiche, di remota ascendenza
nomadica – dato che i nomadi sogliono orientarsi sul tempo e non
sullo spazio – e dei racconti più o meno mirabolanti che, attingendo
realtà e senso da paradigmi mitici, non possono costituirsi mai
come esempi storiografici, se non altro perché collocano gli eventi
nei modelli spaziali dell’ubiquità e nei modelli
temporali della ripetizione.
119
M. LIVERANI, op.cit.,
p. 307. Il pensiero corre subito al dio Luna della città di
Ur che, insieme al pianeta Venere, guidava e proteggeva i
viandanti illuminando di notte le steppe siriane.
120
Ibid., p. 309.
121
Es 14, 15-31; Is 51, 9-11.
122
Gs 3, 14-17.
123
2 Sam 5,
20-21.
124
2 Re 2, 1-18.
125
Sal 93, 3-4; Is 11, 15.
126
1Re 3, 2-5.
127
Gen 28, 10-22.
128
Ad es.,
Enlil, il “Signore atmosfera”, sovrano dell’universo dell’antico
pantheon sumero, aveva residenza a Nippur e il tempio principale
a lui dedicato, Ekur, significava “casa montagna”.
129
M. ELIADE, Il sacro e il profano, tr. it. di E. Ladini,
P. Boringhieri, Torino 1967, p. 19.
130
Dall’intima costituzione dei vissuti
rivelativi impersonali, qui appena schizzata, è possibile comprendere
perché in essi la noesis
– l’elemento intenzionale del vissuto - si presenta sempre incarnata
e la hyle – l’elemento non intenzionale del
vissuto - non può essere materia perché inscindibilmente connessa
alla noesis intenzionale e da essa animata.
Ma per tutti i vissuti, impersonali e personali, vale l’assioma
fenomenologico che la noesis senza la hyle sarebbe invisibile, la hyle
senza la noesis sarebbe insensata. |