13.
Fatti salvi l'apparato tecnico e certi "trucchi" del mestiere del rilevatore antropologico sul campo, non bisogna mai pensare al dato e al suo invisibile senso nei termini con cui si pensano dialetticamente in Occidente il corpo e l'anima o la lettera e lo spirito. Per la cultura occidentale, in verità, un simile compito analitico è talmente irto di ostacoli, persino lessicali, da apparire, forse, del tutto ineseguibile.1 Il fenomenologo, anzitutto, nell'ermeneutica di un segno culturale, non muove, certo, dal corpo, cioè dal tegumento oggettivo, per andare a scovarne l'anima nascosta, come se il senso intenzionale fosse una specie di nocciolo o nucleo spirituale, racchiuso all'interno di un involucro sensibile (segno culturale) che ne rechi, tuttavia, come delle sensibili tracce esteriori. A differenza di quanto accade in qualunque ermeneutica oggettiva, nell'ermeneutica fenomenologica non è previsto e non è possibile transito alcuno dall'esteriorità materiale di un segno culturale all'interiorità spirituale del suo significato. Occorre, come ho già avvertito, sospendere e neutralizzare, anzitutto, ogni struttura obbiettivata di esistenza e di senso, riducendola drasticamente al reticolo intenzionale (noema) di cui ogni entità è fenomenologicamente costituita, onde, poi, decostruirlo, dipanando, cioè, uno per uno, i fili intenzionali che l'hanno generato e che, animandolo, lo mantengono in vita, innervati come sono nella coscienza vissuta (noesi), unica originaria donatrice di ogni senso.
Nella postura indigena tutto questo, ovviamente, non lo si può vedere. L'indigeno, del resto, vede "cose naturali o artificiali", "animali", "persone", "dei", "eventi naturali e sociali", etc., e non, di certo, vissuti intenzionali articolati nelle loro noesi e nei loro noemi. Non si tratta, quindi, di estrarre qualcosa che se ne stia chiuso all'interno di un guscio, distillando "lo spirito" attraverso le sue labili tracce rapprese nella lettera, ma di vedere in blocco lo stesso dato in un altro modo, al di fuori di quell'atteggiamento che obbiettiva esistenza e senso, cioè "trasvalutandolo" come il mero precipitato di molteplici e contesti fili intenzionali che si dipartono da una coscienza costituente, personale o impersonale che sia. Il fenomenologo, lo ripeto ancora, non procede dall'esterno all'interno dei segni culturali, secondo gli usuali canoni di ogni analitica obbiettivante, ma si muove, in virtù della sospensione radicale di ogni esistenza e di ogni senso inindagati, dalla sfera noetica del costituente intenzionale a quella noematica dell'intenzionalmente costituito. Probabilmente, questo "altro" modo di vedere del fenomenologo non fa vedere, addirittura, più lo stesso dato, quello cioè visto e tematizzato dall'antropologo non fenomenologo. E questo altro modo di vedere potrebbe forse far scorgere, finalmente, l'altro come altro e se stesso come "altro tra gli altri" e non più collocato a ridosso del "centro del mondo" a misurare, freddo, le presunte distanze da un mondo umano ridotto ad un'immensa periferia etnica. L'epochè fenomenologica, infatti, non è altro che l'inevitabile istituzionalizzazione, come tecnica metodologica, del vissuto della crisi generale dei fondamenti, prodotta dalla perdita novecentesca del " centro" da parte della cultura occidentale, soprattutto europea, e non già la mera opzione esistenziale di una coscienza travolta da un mero dubitare soggettivo che potrebbe, pure, essere gratuito o, persino, patologico.
Una volta perso il centro culturale di riferimento, senza poterlo più riguadagnare, data la radicalità della crisi, l'altro etnico potrà essere visto e inteso, finalmente, come altro, mantenendolo nella sua integrità antropologica, senza sfigurarlo in diverso, come è sempre accaduto a causa dell'assolutismo indigeno dell'analista che, facendo centro su se stesso, riduceva l'altro al diverso (da sé), intendendolo, quindi, come mancanza, come scarto, come distanza, misurabili con modelli scalari di varia indole, a partire dal presunto "centro del mondo", occupato dalla cultura di casa propria. Del resto, è ovvio che, se i propri principi e le proprie categorie sono vissuti e intesi come assoluti ed esclusivi, sarà irresistibile l'istinto a proiettarli dappertutto. L'analisi fenomenologica dell'alterità in antropologia come esito collaterale della patologia culturale di cui è preda l'Occidente europeo.
1. L'ipoteca platonica sull'intera cultura occidentale è onerosissima ed è molto difficile sottrarvisi, perchè occorre contrastare una delle più formidabili matrici culturali della nostra cultura. Ne sa, in particolare, qualcosa in proposito, l'antropologo delle religioni che si vede costretto a comprendere le ragioni mitico-rituali altrui serrandole nella camicia di forza delle categorie e delle polarizzazioni platoniche. Si pensi, ad esempio, al caso emblematico di M. Eliade.