14.

La fecondità antropologica dello sguardo fenomenologico può rilevarsi, ad esempio, quando esso si volge verso la cultura popolare - di ogni epoca e di ogni latitudine - che, notoriamente, suole essere intesa da analitiche non fenomenologiche come "refrattaria all'astrazione o al simbolismo" e proclive, quindi, a lasciarsi dominare dal concreto e dal materiale. Questa centralità esistenziale e cognitiva della corporeità, attribuita alla cultura popolare, religiosa o laica che sia, deve essere fenomenologicamente attestata e approfondita, anche perché, molto probabilmente, è proprio lungo questa direzione analitica che si potrebbe, forse, giungere a tracciare finalmente una linea di demarcazione antropologicamente perspicua e non nascostamente valutativa tra la cultura cosiddetta colta e la cultura cosiddetta popolare. E, in base a certi risultati analitici della fenomenologia, appare evidente, anzitutto, che il ceto agro-pastorale e, ampiamente, popolare non ha della materia la stessa concezione che ne hanno avuto i chierici (nel Medioevo) e i cittadini (a partire dalla rinascita delle città), cioè, in generale, gli esponenti della cosiddetta "cultura alta".

Le difficoltà ermeneutiche, a tale proposito, sono francamente formidabili. Infatti, lungo una millenaria tradizione culturale che risale alle origini stesse dell'Occidente, è maturata una ideologia - generalmente egemone - della materia come qualcosa di opposto allo spirito e all'intelligenza. L'universo della materia, in sé considerato, è, in linea tendenziale, sinonimo di informe, di oscuro, di ottuso e di inintelligibile. Può, certo, scorgersi nella materia un ordine, ma esso è giudicato senza intelligenza, mentre il suo movimento è ritenuto, di certo, senza volontà. Così essa è totalmente dipendente dallo spirito e dall'intelligenza e solo da questi può ricevere luce, animazione e forma. La proiezione, ora, sui ceti popolari di questa consolidata concezione occidentale che ha inventato materia e spirito produce inevitabili esiti cognitivi e valutativi : paganesimo, superstizione, magia, miseria intellettuale (ignoranza) e materiale (povertà), etc., cioè un incomprensibile e indigeribile guazzabuglio di attribuzioni negative, che non può avere alcun valore antropologico e che ha di intelligibile solo l'animo ottuso del pregiudizio dogmatico e della violenza ideologica.

Purtroppo, questo inindagato modulo ermeneutico - alla cui luce, di fatto, fin dall'alto Medioevo, la Chiesa di Roma aveva contrapposto il messaggio etico e spirituale del Vangelo alle religioni non cristiane, giudicate, in blocco, senz'altro, grossolane e false1 - è purtroppo trapassato, con il suo sconsiderato impiego, in importanti testi antropologici dedicati allo studio dei cosiddetti "ceti subalterni". Così, le celate ragioni dell'intero universo mitico-rituale popolare - usi "magici" e "taumaturgici" dei sacramentali, dell'acqua benedetta, dell'olio santo, dell'ostia consacrata, delle immagini e delle reliquie dei santi, delle Rogazioni, del suono delle campane, soprattutto la credenza salda nei cosiddetti "miracoli", etc. - vengono totalmente divelte dall'humus generativo del loro specifico senso razionale, divenendo, in tal modo, del tutto incomprensibili. E questa effettiva inesplicabilità è stata imputata, senza appello, all'indole intrinsecamente ottusa ed incolta di quella credenza e di quel gesto e non già all'inadeguatezza metodologica degli strumenti ermeneutici impiegati per interpretarli. Un' impresa certamente proibitiva, questa, per qualunque indigeno occidentale, educato ad intendere ed a vivere le proprie categorie come assolute ed esclusive, che si volga allo studio di culture esotiche o tradizionali : pensare la materia e lo spirito senza opporli l'una all'altro, oppure senza distinguerli o, almeno, senza distinguerli secondo il modulo trionfante e indiscusso dell'ilomorfismo occidentale.

Non si tratta, solamente, di non distinguere cose che il pensiero egemone occidentale suole distinguere, ma, soprattutto, di pensare cose in modi altri da quelli in cui esse sono pensate all'interno di una cultura che, non distinguendole o distinguendole in altri modi, le pensa attribuendo loro, evidentemente, connotazioni del tutto estranee a quelle attribuite in Occidente. È sufficiente, qui, accennare, sia pure fugacemente, all'importante rilievo fenomenologico che negli universi a base mitico-rituale si individuano vissuti di senso di tipo molto specifico, caratterizzati da una noesi (coscienza) impersonale e da un elemento non intenzionale, costitutivo, insieme alla noesi, del vissuto stesso, la hyle2, che non è pensabile ellenicamente come "materia", perché è ritenuta dalle etnie di tali universi abitata da intelligenza e da volontà autonome. Pertanto, l'analisi fenomenologica è in grado di condurre alla luce del giorno l'intima razionalità di questa anonima credenza, apparentemente assurda, senza la quale, per altro, non è possibile comprendere le ragioni di ulteriori stravaganti credenze, di gesti e di comportamenti singolari, tipici dell'universo sacrale, e, soprattutto, il senso genetico di quell'arcano vissuto "dell'incanto del mondo" che, con l'avvento della nostra modernità, è andato, via via, del tutto smarrito. A mio avviso, le difficoltà ermeneutiche di fondo delle antropologie non fenomenologiche sono, forse, tutte qui, e appaiono difficilmente superabili.

 

13.

 


 

1. Va ricordato, comunque, che la tradizione patristica aveva ravvisato, in una certa misura, un valore preparatorio alla vera fede in molti contenuti presenti nelle religioni non cristiane.

 

2. I dati iletici, componenti reali e non intenzionali di ogni vissuto, sono da intendere come il residuo fenomenologico dei precipitati degli esterocettori, degli enterocettori, dei propriocettori, delle cenestesi e delle cinestesi del corpo proprio, dopo che l'epochè abbia messo tra parentesi ogni assunto oggettivo psicofisiologico. Per la fenomenologia, la hyle è, in prima e originaria istanza, il vissuto non intenzionale di una coscienza intenzionale e non è sinonimo di "materia".

 

 


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