RADICI E
RAGIONI DEL SITO "HIEROS"
Le
pagine di Hieros sono dedicate al pensiero di Domenico
Antonino Conci (1936-2008)
come testimonianza della sua vasta e originale ricerca
fenomenologica, antropologica e filosofica
Domenico
Antonino Conci. Un profilo
In ogni tempo e in ogni spazio «l’esistenza del nomade dipende
esclusivamente dall’orografia superficiale del territorio e,
soprattutto, dall’avvicendarsi degli eventi meteorici,
ampiamente intesi. Egli, di norma, non ha bisogno alcuno di
radicamenti, fisici o psichici che siano, né per l’economia
dei viventi, né per quella dei morti, quindi non tende a
coltivare la terra e non scava il suolo per innalzare
costruzioni su inamovibili fondamenta, sognando un’eterna
permanenza in vita e dopo la morte».
Il 13 maggio 2008, all’età di settantadue anni, è scomparso
Domenico Antonino Conci, filosofo, antropologo, fenomenologo.
"Operatore culturale" - come negli ultimi anni, con somma
ironia, amava definirsi. Conci era un pensatore nomade. La sua
ricerca ha tracciato un sentiero atipico nei territori della
filosofia, dell’antropologia e della fenomenologia, grazie
all’adozione di un metodo anomalo e rigoroso, da lui forgiato
metabolizzando il patrimonio analitico della fenomenologia di
Edmund Husserl e accogliendo senza esitazioni né rimpianti
quell’assenza di certezze e fondamenti che è ormai la cifra
inemendabile dell’Occidente. Come un nomade appunto, senza
bisogno alcuno di radicamenti, fisici psichici e men che mai
speculativi, Conci procedeva seguendo l’orografia dei
territori di indagine su cui aveva cominciato a muovere i
primi passi fin dalla metà degli anni Sessanta, adeguando e
affilando incessantemente i suoi strumenti d’analisi, sempre
in corso d’opera, senza mai fermarsi a scavare il suolo
nell’improbabile tentativo di gettare fondamenta salde e
inamovibili.
Domenico Antonino Conci era nato a Reggio Calabria il 26 marzo
del 1936. Si era laureato in Giurisprudenza a Palermo e aveva
superato l’esame di procuratore legale per affiancare al più
presto il padre Francesco nel suo studio di avvocato
penalista. Ma di nascosto studiava filosofia, obbedendo ad una
vocazione che lo avrebbe portato ad abbandonare sul nascere
l’annunciata carriera giuridica per seguire piuttosto la
strada dello studio e della ricerca già intrapresa dalla
madre, Pia Gravino, una delle prime donne ricercatrici
all’Università, docente di Chimica. Sottraendosi all’ipoteca
paterna, alla fine degli anni Cinquanta decide di lasciare
Reggio Calabria per salire a Roma. Nel 1964 inizia il suo
percorso accademico come assistente volontario di Pietro
Prini, che in quegli anni insegna Filosofia teoretica nella
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia ed
ha tra i suoi assistenti anche Dario Antiseri. Nel 1968,
sempre con Prini, viene nominato assistente ordinario alla
prima cattedra di Storia della Filosofia della Facoltà di
Magistero dell’Università di Roma "La Sapienza". Tra i
colleghi romani stringe amicizia con il fenomenologo Enrico
Nicoletti, che in seguito diventerà titolare della cattedra di
Ermeneutica filosofica, assieme al quale cresce e si
consolida il già vivo interesse per il pensiero di Edmund
Husserl.
Queste prime esperienze
accademiche sono integrate e irrobustite da un lungo tirocinio
metodologico, inizialmente presso le Università di Colonia e
Lovanio, poi all’Università di Genova, dove studia con Evandro
Agazzi, con il quale instaurerà un solido rapporto di stima e
collaborazione. Nel 1971 comincia a insegnare Filosofia della
Scienza all’Università di Macerata. Infine nel 1976, vinto il
concorso a cattedra di Filosofia, viene chiamato alla Facoltà
di Magistero dell’Università degli Studi di Siena - l’attuale
Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo - dove continuerà ad
insegnare fino agli ultimi anni come professore ordinario di
Filosofia Teoretica.
Fin dalla metà degli anni Ottanta, all’attività presso
l’Università di Siena aveva affiancato un ulteriore impegno
didattico all’Istituto Universitario "Suor Orsola Benincasa"
di Napoli, come docente di Antropologia culturale. Eppure,
dopo oltre un quarantennio di insegnamento, la passione e
l’intensità con cui svolgeva il suo lavoro di docente non si
erano minimamente affievolite; lo stile espositivo, la
disponibilità al dialogo, la sua profonda umanità non
lasciavano mai indifferenti gli studenti che affollavano i
suoi corsi, e l’acume teoretico delle sue osservazioni
fatalmente finiva per marcare a fuoco gli allievi più dotati
di sensibilità filosofica.
Autore di numerosi testi, saggi e articoli, membro dei
comitati scientifici di riviste e collane editoriali, Conci
aveva svolto anche un’intensa attività come relatore in
seminari interuniversitari, congressi e convegni nazionali e
internazionali, arrivando ad essere insignito, il 27 dicembre
del 1992, del titolo di Grande Ufficiale della Repubblica
Italiana per meriti culturali. Ma le cose che avrebbero fatto
gonfiare il petto e inorgoglito i più, venivano puntualmente
fuse al calor bianco della sua trascinante e inarrestabile
ironia.
La sua competenza nel campo della fenomenologia si era
strutturata con alcuni dei maggiori studiosi italiani, come
Sofia Vanni Rovighi e Paolo Valori, mentre in Germania aveva
seguito i seminari di Eugen Fink, l’ultimo allievo e
assistente di Husserl. Stando alle sue parole, scarne e
rarefatte quando si trattava di ripercorrere gli anni della
propria formazione, era stata la possibilità di radicalizzare
il discorso filosofico intravista fra le pagine di Edmund
Husserl ad avvicinarlo inizialmente alla fenomenologia. Ma
l’energia onnivora della sua mente mai si sarebbe risolta e
appagata nella mera esegesi degli scritti husserliani. Una
delle cose che Conci ha sempre insegnato e trasmesso è che
essere un fenomenologo non coincide affatto con l’essere uno
specialista di scolastica husserliana. Non che lo studio e
l’interpretazione dei testi e dei manoscritti di Husserl non
siano importanti: semplicemente sono tutt’altra cosa rispetto
alla pratica dell’analisi fenomenologica. Fare
fenomenologia non vuol dire tanto possedere ed esercitare
una specifica competenza filologica, quanto applicare un
metodo preciso, quello fenomenologico, ai più disparati
campi di analisi. Ed è appunto seguendo le coordinate del
metodo husserliano che Conci comincia a sviluppare le sue
prime indagini, ponendo alcune questioni preliminari che
prendono di mira la struttura portante dell’intero programma
di ricerca della fenomenologia.
Si tratta in buona sostanza di verificare
la consistenza fenomenologica del metodo fenomenologico
stesso, procedendo attraverso una ricognizione critica
dell’opera di Husserl e operando un severo controllo
analitico degli enunciati con cui il maestro registrava e
trasmetteva gli esiti delle sue ricerche. Queste prime
incursioni di “fenomenologia della fenomenologia”,
presentate nel testo La
conclusione della filosofia categoriale. Contributi ad una
fenomenologia del metodo fenomenologico (1967), finiscono per evidenziare un
punto debole dell’analitica husserliana, rivelando una
latente inadeguatezza del suo dichiarato fondamento
intuitivo. È a partire da questi risultati che Conci
comincia ad impostare una revisione del metodo
fenomenologico, maturata teoreticamente nel primo volume dei
Prolegomeni ad una
fenomenologia del profondo (1970),
e sviluppata poi incessantemente lungo il suo intero
itinerario intellettuale, fedele alla convinzione che il
metodo non può che configurarsi a partire dalle “cose
stesse”, e dunque che tutte le questioni relative al metodo
solvitur ambulando, si risolvono in corso d’opera,
procedendo analiticamente nel confronto serrato con il
proprio oggetto di studio, mai in astratto.
Non è facile presentare l’opera di Domenico Antonino Conci
succintamente e senza ricorrere almeno in parte ad un
lessico tecnico. Limitando per quanto possibile oscurità e
asperità espressive, possiamo innanzitutto ricordare che il
baricentro del metodo fenomenologico, il “gesto inaugurale”
della fenomenologia è, com’è noto, l’epoché. Ed è proprio sul ruolo, sulla portata e
sulla possibilità stessa di questa operazione che si
registra un primo scarto fondamentale tra la “fenomenologia
ortodossa” e la “fenomenologia del profondo” inizialmente
proposta da Conci. Nel tentativo di attingere quelle
“datità” fenomenologiche originarie che sole potrebbero dare
il senso e convalidare la fecondità del metodo
fenomenologico, Conci, oltrepassando la classica epoché husserliana,
comincia ad esercitare un tipo particolare di epoché,
una “epoché radicale” che non si limita a sospendere
l’atteggiamento naturalistico, bensì prende di mira il più
ampio e articolato “atteggiamento obiettivante” o
“categoriale”, di cui l’atteggiamento naturalistico
rappresenta soltanto un sottoinsieme. Più esattamente, nel
suo esercizio radicale l’epoché
non colpisce tanto
l’oggettivo, il mondano, il naturale in quanto tali, bensì
colpisce l’assolutezza delle posizioni di senso e di
esistenza, cioè il darsi in maniera inindagata – sempre
all’interno dell’ambito analitico della fenomenologia – di manifestazioni che vengono assunte come
autentiche e inquestionabili “autodatità”, pure
“evidenze”, senza un opportuno controllo.
Si tratta di un lavoro estremamente
arduo e complesso, che porta Conci a individuare come
insospendibile e dunque come autentico originario
fenomenologico, la sfera del vissuto “precategoriale”,
rendendo così inevitabile quella che lui stesso definirà
una “riforma” della morfologia dell’Erlebnis
husserliano, al cui interno
deve essere finalmente riconosciuta ed evidenziata la
funzione generale della hyle, la cosiddetta componente materiale
del vissuto, quale fonte di visualizzazione per l’intero Erlebnis.
Tra i vari esiti di questo ponderoso impegno inaugurale,
emerge anche la possibilità – che Husserl tendeva ad
escludere per principio – di mettere tra parentesi e
sospendere il polo egologico, l’io puro. La peculiare epoché della
fenomenologia radicale arriva infatti a mostrare come
l’identificazione husserliana dell’originario
fenomenologico con la sfera immanente di un io
trascendentale fosse più che altro dovuta all’equivoco di
assumere come dato originario, adeguato e incontestabile,
una nozione di soggetto che, sottoposta alla decostruzione
fenomenologica, si rivela invece come un costrutto, il
prodotto di una manipolazione categoriale.
Con il termine
“categoriale” – sarà bene chiarire – Conci si riferisce
puntualmente ad una particolare struttura connettiva: la
struttura di relazione che collega in maniera funzionale
un piano invariante (Eidos) al piano delle sue molteplici
variazioni. All’atteggiamento categoriale e a questa
peculiare struttura invarianza-variazioni, che impagina e
sottende integralmente le formazioni culturali
dell’Occidente, si devono dunque tutte le nostre familiari
dicotomie e distinzioni concettuali, come quelle tra
soggetto e oggetto, io e mondo, dominio psichico e ambito
fisico, segni ed enti, corpo e anima, ecc. Anche il
soggetto, il polo egologico, dunque, una volta tematizzato
radicalmente, più che un residuo insospendibile risulta
essere piuttosto uno degli esiti costruttivi di tale
struttura relazionale. Conseguentemente, oltre ad
espandere, per così dire, il suo raggio d’azione, l’epoché non
può essere più intesa come un percorso privilegiato verso
la regione della soggettività trascendentale, verso quel
“punto archimedico” a partire dal quale Husserl cercava di
edificare una conoscenza certa e assolutamente fondata. Ma
più che di una limitazione interna, qui si tratta di
un’opzione che scaturisce dalla lucida consapevolezza
dell’avvenuto collasso dei fondamenti della cultura
dell’Occidente e di cui la fenomenologia radicale si fa
carico fin dagli esordi.
Dopo la pubblicazione dei Prolegomeni,
Conci si dedica all’approfondimento del pensiero
categoriale filosofico e scientifico, impegnandosi in una
ricognizione storico-teoretica della logica formale e
riflettendo sulle varie prospettive metodologiche da cui è
stata affrontata la questione dei fondamenti della
matematica, nella convinzione che tale esame costituisca
un momento propedeutico all’edificazione di una
fenomenologia intesa come atteggiamento teoretico
alternativo a quello scientifico. Tutto questo lavoro
confluirà poi in Logica
e matematica nel problema dei fondamenti (1974) e verrà portato avanti negli anni
successivi attraverso un’analisi fenomenologica del
linguaggio delle teorie scientifiche, presentata nel
volume L’universo
artificiale. Per una epistemologia fenomenologica
(1978), e con un’ulteriore
indagine dedicata alle residue istanze fondazionali
nella scienza contemporanea e nella filosofia della
scienza, esposta nell’Introduzione
ad una epistemologia non fondante (1982).
Tuttavia sono le questioni connesse alla critica del
metodo della fenomenologia classica a sollevare problemi
più urgenti e a richiedere nuova attenzione. La
possibilità di sospendere l’“atteggiamento egologico” e
accedere effettivamente alla dimensione precategoriale,
nonché le complesse implicazioni, non solo tecniche, di
questa riforma del metodo, la plausibilità e la
consistenza di quanto viene emergendo dalla
fenomenologia radicale, richiedono ulteriori
chiarificazioni, di cui dà conto Per
una fenomenologia dell’originario (1978),
testo che susciterà un animato confronto con Angela Ales
Bello, fenomenologa energicamente impegnata
nell’approfondimento e nella rivalutazione dell’eredità
husserliana, di cui testimonia Il
tempo e l’originario. Un dibattito fenomenologico
(1978).
Comincia così un periodo di critica e
di assestamento delle tecniche impiegate nel lavoro
analitico, nel corso del quale viene delineandosi meglio
il campo di indagine. Durante una conversazione di
qualche anno fa, Conci aveva fugacemente accennato al
semiologo e filosofo del linguaggio Ferruccio
Rossi-Landi, attribuendo a lui la spinta che avrebbe
provocato la sua personale “svolta linguistica”, ovvero
la decisione di impostare la ricerca fenomenologica come
una particolare analitica dei segni. La fenomenologia,
notoriamente, muove dalla scoperta dell’intenzionalità
della coscienza. Secondo l’ortodossia husserliana, la noesis,
la componente noetica del vissuto intenzionale, svolge
una funzione precipua, assoluta ed esclusiva: quella di
dare senso, di significare. Ma se così stanno le cose, è
evidente che l’attività intenzionale costitutiva di
senso non può che precipitare e depositarsi in segni.
L’attività intenzionale della noesis, in altre parole, tende a
manifestarsi necessariamente come segno, laddove il
segno è appunto segno degli specifici vissuti che ne
costituiscono il senso. «La fenomenologia radicale,
pertanto, va assunta specificamente come un’analisi dei
segni vissuti o, se si vuole, come un’analitica delle
componenti vissute dei segni, quindi come
una singolarissima semiotica,
ove il significato di ciascun segno è costituito dal
vissuto che lo riempie e dalle sue specifiche modalità
manifestative».
Questo vuol dire, tra le altre cose, che la
fenomenologia non può essere concepita come una
singolare analitica della psiche, che i vissuti non
debbono essere intesi come degli speciali oggetti
immanenti da tematizzare
esclusivamente con tecniche introspettive. Il
fenomenologo, in poche parole, non svolge un’analitica
di se stesso, della propria interiorità, del proprio
ombelico, bensì, se vuole veramente andare “alle cose
stesse”, deve impegnarsi a sviluppare un’analitica dei
segni, e specificamente, come vedremo, dei segni delle
diverse culture.
Tenendo conto del fatto che «in quanto presenze
significanti, i vissuti sono allora dei “segni”, in
senso amplissimo, cioè, di volta in volta, eventi,
parole, scrittura, gesti, manufatti, non più
pienamente comprensibili qualora isolati dai vissuti di cui essi sono direttamente
segni».
Un’altra indicazione decisiva per il futuro decorso
delle sue ricerche scaturirà dalla frequentazione del
filosofo Remo Cantoni, il quale per primo gli
suggerisce di applicare gli strumenti analitici della
fenomenologia all’universo ancora poco esplorato delle
culture mitico-rituali. «Il pensiero mitico» – come
spiegava Cantoni – «non è un mondo arbitrario e
caotico, un prodotto capriccioso di una mente ribelle
o refrattaria alla logica. Esso è pervaso di una
razionalità».Comincia così a dischiudersi la via
verso l’universo molteplice e variegato delle altre
culture, che condurrà la fenomenologia radicale ad
attraversare i territori di competenza delle scienze
umane, aprendo un confronto metodologico con
l’antropologia culturale, l’etnologia, l’archeologia.
Confronto che comincia a profilarsi con Le ragioni degli altri. Idee
per una metamorfosi antropologica (1979), in cui Conci prende in
esame l’antropologia descrittiva di Ludwig
Wittgenstein, cercando di individuare il percorso
ermeneutico in grado di condurci a
«comprendere le Lebensformen
(le attività) e
le regole di modelli culturali radicalmente diversi
dal sistema occidentale»,
aprendo così la strada alla futura tematizzazione dei
logoi delle culture lontane
dall’Occidente. Si tratta degli universi culturali che
saranno raccolti da Conci sotto l’espressione
«realismo segnico» – negli ultimi lavori ulteriormente
precisata e sostituita da «iperrealismo segnico» –
ossia l’ambito di tutte quelle culture a fondamento
mitico-rituale in cui senso ed esistenza, in virtù di
una particolare postura esistenziale e cognitiva che
non implica una coscienza personale ed egocentrata, si
ritiene vengano elargiti dalla potenza sacrale. In
altri termini, «l’universo del realismo, quello
pervasivo del mito, della magia e della religione, non
è un dominio di coscienze e di cose, ma è un tessuto
di vissuti non egocentrati (impersonali)».
Ed è a questo vasto e diversificato insieme che
appartengono le antiche e ormai defunte culture
pregreche e non greche, le rare culture etniche ancora
presenti sul nostro pianeta e ciò che resta delle
comunità agropastorali d’Europa, le cosiddette culture
“subalterne” o “minori”.
La fenomenologia del Sacro, la ricognizione delle
multiformi manifestazioni e modalità della coscienza
religiosa, rappresenta un ricchissimo e difficilmente
esauribile campo di ricerca; tuttavia, prima di
procedere ulteriormente nelle sue analisi, Conci
avverte la presenza di alcuni presupposti inindagati,
che fungono come occulte “ovvietà”
all’interno del metodo radicale da lui stesso
adottato. Nella sua fase aurorale, il lavoro era in
effetti guidato dall’idea che la fenomenologia
radicale potesse consentire in modo autentico e
inequivocabile «l’accesso diretto ad un residuo fenomenologico costituito dal mondo
non categoriale (o
precategoriale), cioè, precisamente alla Lebenswelt (Mondo-della-vita) originaria».
Ma la convinzione che il fenomenologo potesse
addirittura vivere “una vita precategoriale”,
l’identificazione, in altri termini, della postura
analitica del fenomenologo con la postura che
caratterizza la coscienza degli appartenenti alle
culture mitico-rituali, nasceva da una serie di
equivoci, primo tra tutti la concezione
partecipativa della conoscenza, ovvero l’idea che
per comprendere le “ragioni degli altri” sia
indispensabile, e presuntivamente possibile,
partecipare pienamente della loro logica vissuta.
Quando si accorge del pericolo celato al fondo
dell’ingenua persuasione che possa esserci una
“postura rivelativa del fenomenologo”, che
attraverso la fenomenologia radicale si possa
attingere direttamente la Lebenswelt, il Mondo-della-vita, il
precategoriale, l’antepredicativo, Conci rimette in
discussione i presupposti del suo lavoro, allargando
il campo di indagine e articolando ulteriormente il
metodo analitico.
Come non si stancava mai di
ripetere durante le sue lezioni o partecipando ai
dibattiti nei convegni, prendere consapevolezza e
valutare prima di ogni altra cosa la prospettiva
metodologica, storica, ideologica da cui il
ricercatore – ermeneuta, antropologo o filosofo –
muove le fila del proprio discorso è il compito
preliminare di cui bisogna farsi carico, soprattutto
quando ci si occupa di segni culturali che, in
quanto tali, sono già portatori di un senso che non
è il nostro. Tuttavia, sospendere le strutture della
categorizzazione e dell’obiettivazione che
caratterizzano il pensiero occidentale non vuol dire
ingenuamente evadere dalla propria cultura, e tanto
meno procedere a un’inverosimile fusione
partecipativa con altri modelli di coscienza.
Sospendere i propri paradigmi, principi, presupposti
significa semplicemente sospendere la credenza nella
loro assolutezza, esclusività, universalità,
rendendo implausibile e ingiustificato il nostro
insistere a proiettarli ovunque; significa evitare
finalmente di manipolare il senso degli altri
travolgendolo con l’armamentario di categorie,
costrutti e paradigmi della nostra cultura.
Si tratta di una postura
scientifica che appare ormai come l’unica
sostenibile dopo la crisi dei fondamenti che, a
cavallo tra Ottocento e Novecento, ha travolto
l’idea che i principi generali, i criteri, i
paradigmi del pensiero occidentale fossero assoluti,
incondizionati ed esclusivi. L’unica possibilità che
rimane al ricercatore consapevole di tale
condizione, è quella di praticare una analitica
priva di fondamenti, assumendo questi principi in
una forma indebolita, non assoluta, non esclusiva. È
appunto da questa consapevolezza che scaturisce un
ulteriore assestamento del metodo ed emerge la
tecnica dell’analisi contrastiva, ovvero quella
particolare «analisi fenomenologica di un
antropologo che, invece di assolutizzare i
principi e le categorie della propria cultura, per
proiettarle, poi, sui dati da analizzare,
sovrapponendoli ad essi come un estraneo vestito
di idee, nella convinzione di coglierne, in tal
modo, il senso, li impieghi, invece, accostandoli
semplicemente ai principi e alle categorie
dell’altrui cultura, confrontandoli, in prima
istanza, contrastivamente con i propri».
Conseguentemente, affiancarsi agli altri cessando
di trasfigurarli in “diversi”, accostare le nostre
strutture di senso a quelle altrui, vuol dire
anche disporsi finalmente ad incontrare se stessi
come altri tra gli altri, constatando che “oggetti
culturali” sono anche la metafisica, i linguaggi
delle teorie scientifiche, l’arte figurativa
occidentale. Accostare le proprie strutture di
senso a quelle degli altri, porta a conoscere per
contrasto la propria ragione, il proprio logos.
Porta a comprendere ad esempio che il mondo
occidentale è nato liberandosi dalla hyle,
che alle nostre radici c’è un gesto culturale
epocale, quello di Parmenide di Elea,
che enuncia per primo quel principio di identità,
fondamento logico del nostro pensiero, che
consentirà la nascita e la costruzione della
metafisica, della scienza, dell’arte, in poche
parole di tutta la serie di oggetti culturali che
caratterizza la nostra cultura. Procedere
contrastivamente significa allora trovarsi a
confrontare le strutture “vuote”, ovvero deiletizzate, disincarnate, tipiche del
pensiero occidentale, con quelle di un pensiero iletizzato,
cioè “incarnato”, un pensiero in cui la hyle,
quale fonte di manifestazione del vissuto, svolge
pienamente il suo ruolo cruciale.
Per isolare fenomenologicamente
e definire l’effettivo ruolo della hyle all’interno
del vissuto impersonale tipico delle culture
mitico-rituali, occorre prima di tutto abbandonare
la sua usuale e riduttiva concettualizzazione come
“materia” e affrontare il compito più che arduo
dell’elaborazione di una “hyletica”, o iletica
fenomenologica, mai debitamente affrontato dalla
fenomenologia di Husserl, e di cui Disinterested
Praise of Matter. Ideas for Phenomenological
Hyletics (1998)
rappresenta uno dei tentativi più perspicuamente
articolati. Tuttavia la questione fenomenologica
della hyle non può essere affrontata e
risolta soltanto a livello teorico, stando seduti
a tavolino: per sorprenderne e isolarne
l’effettiva funzione manifestativa occorre
impegnarsi nel più volte menzionato esercizio di
una semiotica fenomenologica, attraverso lo
svolgimento di una serie di dettagliate analisi
sul campo. Ed è appunto con questi studi dedicati
alle peculiari strutture della postura rivelativa
e ai loro esiti concreti nelle più diverse
tradizioni culturali che Conci inizia a delineare
una nuova ermeneutica fenomenologica del Sacro, di
cui testi quali Il
Drago di San Michele. Fenomenologia dei vissuti
originari del male (1999),
Pietre che
salvano. Fenomenologia di santuari preneolitici
(1999), La guerra degli angeli.
Contributo ad una fenomenologia dei vissuti
bellici (2000),
Tempi sacri
e tempi profani nelle culture a fondamento
rivelativo. Analisi fenomenologiche (2001), rappresentano solo
alcuni degli esempi più significativi.
Procedendo attraverso questo minuzioso lavoro
analitico, seguendo di volta in volta la
particolare “topologia” del territorio da
indagare, Conci giungerà tra l’altro ad isolare
fenomenologicamente le inaudite e per noi
paradossali strutture eidetiche di uno spazio dell’ubiquità, di un tempo
della ripetizione e
di una logica
iletica (logica
della metamorfosi), che caratterizzano, assieme
ai contenuti manifestativi non fenomenici, la
postura rivelativa della coscienza, ovvero
quella condizione necessaria, anche se non
sufficiente, affinché il Sacro si possa
manifestare agli uomini.
Molti altri luoghi e differenti aspetti
dell’opera di Conci meriterebbero attenzione e
approfondimento. In questa sede è possibile solo
nominare di sfuggita le sue numerose ricerche
sui temi dell’ibrido e della metamorfosi, le
analisi dedicate all’immagine rivelativa e
sacrale, la ricostruzione della genesi del logos occidentale
dal collasso delle antiche culture mediterranee,
i saggi sull’incompletezza di homo e
sul vissuto della “disperazione fossile”. Ma è
comunque opportuno segnalare che oltre a
comunicare i risultati ottenuti attraverso il
lavoro sui segni culturali, Conci ha sempre
cercato di tematizzare anche l’incessante
procedimento di controllo e revisione critica
dei presupposti e dei criteri metodologici della
sua antropologia fenomenologica. Di tali
questioni trattano Per
un’antropologia fenomenologica. Ragioni e
metodo (1991),
scritto con Angela Ales Bello, Medusa
and Perseus. Is a Phenomenological
Anthropology possible? (1996),
Per il
rilevamento fenomenologico in Antropologia (1996), Tra
noi e gli altri: uno spazio per l’antropologia
fenomenologica (1998).
Oltre ad applicarsi allo
studio, ai contributi scientifici ed agli
impegni accademici – questi ultimi assolti
ricoprendo, tra le altre cariche, anche quella
di preside della Facoltà di Magistero
dell’Università di Siena dal 1986 al 1991 –
l’energia generosa e creativa di Domenico
Antonino Conci si estendeva e dedicava anche ad
altre attività. Intendendoli quasi come un
naturale sbocco e proseguimento delle sue
ricerche dedicate alle culture subalterne, Conci
è stato un instancabile ispiratore e animatore
di numerosi progetti per il recupero e la
salvaguardia delle tradizioni popolari,
soprattutto nell’Italia centro-meridionale. Come
direttore del Centro di Cultura dell’Università
del Molise, si era impegnato dalla seconda metà
degli anni Ottanta in un progetto di
allestimento della mappa antropica della Regione
Molise. Nel 1996 in Toscana, sul territorio del
monte Amiata, aveva contribuito come
responsabile scientifico ad un progetto di mappa
antropica finalizzato alla creazione di un
osservatorio per la tutela dei beni
culturali demoantropologici e la promozione di
un turismo consapevole. A Napoli, con
l’Università Suor Orsola Benincasa, era stato
tra gli ispiratori e i promotori
dell’istituzione del nuovo Corso di Laurea in
“Turismo per i beni culturali” a Pomigliano
d’Arco. Ma sia che fosse assorto nel più
tradizionale lavoro accademico oppure a
spendersi nei suoi molteplici interessi
culturali, era sempre la sua magnanimità a
dare la nota inconfondibile e ad imprimersi in
coloro che entravano in contatto con lui. Così
come colpiva immancabilmente l’irriducibile
nomadismo intellettuale, che solo chi è dotato
di una immensa libertà esistenziale può
permettersi di praticare.
Come già ricordato, la sua
analitica “transculturale”, come a volte la
chiamava, veniva sempre accordata e calibrata
in movimento, nel confronto diretto con gli
“oggetti culturali” provenienti da ogni epoca
e da qualunque luogo. Eppure nel tentativo
inesausto di indagare il senso e le ragioni
degli altri, Conci finiva per mettere
puntualmente in luce il senso della cultura
occidentale, mostrando così le radici e la
genesi delle nostre attuali condizioni di
vita. Un’estrema e continua attenzione per la
nostra cultura che rimarrà costante anche nei
lavori più recenti, come Il
problema filosofico della morte (2007) e Prospettive
fenomenologiche generali sul tema del
fondamento (2007),
fino agli ultimi testi, come Fenomenologia
della Metafisica (2007),
dettati con lucidità abbagliante dal letto
d’ospedale dove la malattia l’aveva inchiodato
e in cui la morte lo avrebbe colto.
A partire dalla critica
della filosofia categoriale degli esordi, che
appariva come una brutale presa d’atto dei
limiti costitutivi della tradizione e del
lessico del pensiero occidentale, e che poteva
suonare come un abbandono definitivo della
filosofia, Conci ha così finito per portare
oltre, ancora avanti, con coerenza e lucidità,
il più profondo e originale discorso
filosofico. Lasciando aperto davanti a sé un
campo di ricerca sterminato, per altri nomadi
del pensiero che vorranno seguire le sue orme.
Stefano Gonnella
Articolo pubblicato su Heliopolis.
Rivista di filosofia e simbolica politica,
Anno VII, N. 1, 2009, pp. 69-79.
http://www.artetetra.it/heliopolis/wp-content/uploads/2020/05/5_2009_Gonnella.pdf
D. A. Conci, I
rapporti mitico-rituali tra cielo e terra fino alla
prima Età del Ferro,
in A. Achilli - L. Galli (a cura di), I
riti dell’acqua e della terra nel folklore religioso,
nel lavoro e nella tradizione orale, Edup, Roma 2006, p. 295.
D.
A. Conci, Introduzione
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