9.

L'antropologia fenomenologica non è né emica né etica. L'analista fenomenologo, cioè, non sta né dalla parte della cultura dell'indigeno né da quella della cultura del rilevatore obbiettivante. Meglio: la postura indigena di casa altrui e la postura indigena di casa propria e tutti i loro esiti intenzionali sono radicalmente esclusi dalla epochè, come si vedrà avanti più dettagliatamente, in un'antropologia che segua il metodo fenomenologico. Questa esclusione è preliminare e necessaria, non solo per l'avvio e per lo svolgimento dell'analisi stessa, ma anche per la riduzione fenomenologica dei dati.

L'epochè non colpisce, né potrebbe colpire, posizione indigena alcuna, non sospende, cioè, in alcun modo, i principi della cultura di appartenenza dell'analista. Sarebbe assurdo ed impossibile. Neutralizza, precisamente, l'assolutezza e l'esclusività di tali principi, l'assunzione di essi come talmente ovvii da essere ritenuti, addirittura, "naturali". E, in tal modo, una simile antropologia non è più in condizione di proiettare senza cautela alcuna, a fini ermeneutici, le categorie di casa propria su costumi e credenze altrui, come di norma non può che accadere quando la propria cultura è vissuta e intesa dall'antropologo metaculturalmente, come fa comunemente ogni indigeno. Ma il fenomenologo non solo non può obbiettivare, cioè proiettare sui dati propri o altrui i propri modelli cognitivi ed esistenziali, impaginando tali dati, riduttivamente, all'interno di essi1, ma non deve "partecipare" nemmeno della cultura altrui, nell'erroneo intento di raggiungere una massima adeguatezza ermeneutica, perché, ormai, è noto che il senso posseduto dall'indigeno della propria cultura non coincide quasi mai con quello attinto metodologicamente dall'antropologo che la studi sul campo. Del resto, se i singoli e le collettività umane potessero acquisire coscienza di sé medesimi direttamente, "per autotrasparenza", le scienze umane in generale non si renderebbero in alcun modo necessarie.

Con l'espressione "postura indigena" si intende fenomenologicamente l'atteggiamento spontaneo proprio del vissuto collettivo di credenza di abitare a ridosso del Centro del mondo, luogo eminentemente sacrale per le culture mitico-rituali. Si tratta, più in generale, del vissuto collettivo di credenza che i principi della propria cultura abbiano una portata universale esclusiva ed assoluta. La postura indigena, in definitiva, implica necessariamente il saldo convincimento della metaculturalità della propria cultura, onde soddisfare le ragioni supreme dell'identità e della sicurezza dei singoli e delle etnie. In tal senso, questa fondamentale credenza può essere scossa o, addirittura, può rovinare del tutto, di norma, in occasione di gravi crisi, esogene o endogene, violente o no, coinvolgenti comunità intere, che conducono all'estinzione psichica (riduzione di una collettività alla mera sopravvivenza) o, addirittura, fisica delle etnie. È lo stato antropologico relato al vissuto collettivo specifico della cosiddetta "perdita del Centro", che noi Europei del Novecento avvertimmo e avvertiamo, ancora oggi, molto bene. E, sebbene tale condizione esistenziale sia gravemente patologica, non per questo un indigeno qualunque, ad esempio, se diviene preda di un tale grave disorientamento, cessa per questo di essere tale, dismettendo il suo status di indigeno, uscendo, in tal modo, dalla cultura di appartenenza. "Come il leopardo, egli non può abbandonare la propria pelle".

Qualunque postura indigena, ora, è sempre tetica, pone, cioè, costituendole intenzionalmente, un'esistenza e la credenza in questa. In tal modo, gli Aranda australiani, ad esempio, credono al Tempo del Sogno (Alcheringa), gli indigeni d'Occidente e d'Oriente di cultura cristiana alla divinità di Gesù, gli scienziati all'esistenza delle molecole e delle particelle elementari del mondo subatomico, etc.. Sono, questi, dal punto di vista fenomenologico, tutti esiti noematici di varie intenzionalità tetiche, cioè di molteplici e complesse attività posizionali della coscienza, costitutive di credenze in specifiche e differenti esistenze. Il fenomenologo, sottoposto al regime dell'epochè, non pone né può porre senso o esistenza alcuna, né assolutamente né relativamente, e la sua analitica antropologica può essere solo un puntuale rilevamento delle strutture di senso e di esistenza di una intera cultura, persino della propria, che il fenomenologo, tuttavia, non ha contestualmente posto in sede d'analisi. Costui, allora, in quanto fenomenologo soggiacente alla sospensione, non " prende posizione" e non "costituisce" nulla, assumendolo, poi, come un dato più o meno ovvio in cui s'imbatte per caso. Questa "messa tra parentesi" di ogni teticità dura, per altro, finché dura l'analisi. Come è possibile, ora, assumere in antropologia un simile l'atteggiamento fenomenologico?

 

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1. Va sottolineato che l'obbiettivazione e la soggettivazione dei caotici dati fenomenici, cioè la loro catalogazione e la loro attribuzione o alla sfera degli enti astratti ed empirici o a quella delle coscienze soggettive, sono entrambi eventi ed esiti proiettivi occidentali di forme intenzionali, assunte come modelli cognitivi, sui dati manifestativi stessi, con finalità scientifiche.

 


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