6.

L'analisi fenomenologica è fenomenologica perché è preceduta dalla sospensione (epochè) di ogni credenza, soggettiva o oggettiva che sia, ritenuta valida in sé e per sé, senza essere stata mai indagata fino in fondo. È questo l'unico criterio di demarcazione tra l'atteggiamento filosofico o scientifico, in generale, e l'atteggiamento specificamente fenomenologico (husserliano o non husserliano); nettissimo, sebbene l'uso sconsiderato del termine "fenomenologia" in contesti vaghi ed estranei, l'abbia sfigurato semanticamente a tal punto da renderlo oltremodo irriconoscibile ai non addetti. E questo varrà, ovviamente, anche per introdurre l'indagine sul senso della differenza tra un'antropologia fenomenologica ed una antropologia non fenomenologica, obbiettivistica o partecipante che sia.

Le ragioni e le procedure della fenomenologia, anzitutto, non sono così "arcane" e "riposte", come, spesso, a motivo di un apparato lessicale tecnico inusuale, sogliono apparire. Ogni atteggiamento indigeno, che pone e assume come ovvi e come non questionabili, cioè come pacificamente dati, enti reali o astratti, qualità ad essi attribuite e relazioni spaziali, temporali e logiche che li ordinano e li associano gli uni agli altri, etc. cela necessariamente le fondamentali operazioni costitutive (collettive) di senso che hanno intenzionalmente prodotto, indotto e mantenuto in vita tutto questo. Del resto, in condizioni normali, non rientra in alcun programma indigeno di inculturazione, implicito o esplicito che sia, la trasmissione ai nuovi nati, oltre ai modelli percettivi, affettivi, valutativi, operativi, etc., necessari alla sopravvivenza, anche il senso costitutivo del patrimonio culturale etnico, se non altro perché tale senso genetico si sottrae normalmente alla vista indigena. La sua trasmissione, per altro, qualora fosse possibile, rendendolo visibile nella sua autentica realtà di senso, lo rivelerebbe "sfondato", quale esso di fatto è, e non d'indole metaculturale,1 come l'indigeno di ogni cultura suole intenderlo. Tale sconcertante rivelazione indebolirebbe inevitabilmente la cieca credibilità nel valore e nella sicurezza del proprio patrimonio culturale stesso, rendendo sinistramente malsicure la sua stabilità e, quindi, la sua stessa conservazione ne varietur. La misura del successo di una inculturazione risiede proprio nell'automatismo delle credenze, dei gesti e dei comportamenti, indotto da essa nei singoli e nell'etnia.2

I termini "intenzionalità" e "senso", qui impiegati, sono assunti dalla fenomenologia come sinonimi. Entrambi vanno, certamente, attribuiti all'attività propria di una coscienza (noesi) che pone e coglie intenzionalmente entità qualsivoglia, chiamate fenomenologicamente "noemi". Ma questa coscienza non deve essere intesa necessariamente come soggettiva, cioè centrata in un soggetto, secondo una dominante ovvietà indigena della cultura occidentale, perché coscienza e soggetto (io) non sono sinonimi presso tutte le culture. È, questo, l'ostacolo più imponente nell'ermeneutica antropologica della coscienza "esotica". La genesi "dell'ovvio", "del naturale" e della cosiddetta "evidenza", è per la fenomenologia comprensibile proprio muovendo dal riconoscimento della duplice attività intenzionale, dispiegata normalmente dalla coscienza, e cioè quella tetica, cioè posizionale di datità (noemi) qualsivoglia, astratte o empiriche, e quella, in generale, di coglimento delle medesime. Ma, mentre nell'atteggiamento extrafenomenologico le due azioni intenzionali si svolgono contestualmente, in quello fenomenologico l'attività posizionale di esistenza e di senso viene neutralizzata dalla epochè, mantenendo, però, in vita solo quella intenzionale di coglimento, perché questa è, evidentemente, indispensabile per la conduzione stessa dell'analisi. Secondo la fenomenologia, ora, nei contesti non fenomenologici d'analisi, ove l'attività posizionale non è stata sospesa, è fatale che, là dove le due attività intenzionali si sovrappongono e coincidono, si verifichi un vero e proprio cortocircuito che, occultando l'atto posizionale, operante a monte dei suoi esiti noematici, induce a ritenere come una evidenza originaria (cioè come Selbstgegebenheit) e non derivata ciò che l'atto di coglimento descrive. L'antropologo fenomenologo - e, in realtà, non soltanto questi - dovrebbe essere del tutto indifferente sia agli asserti della scienza e della tecnica che a quelli dei miti e dei riti e, pertanto, dovrebbe astenersi dal formulare giudizi di valore su di essi. L'esercizio rigoroso dell'epochè, senza la quale l'analisi fenomenologica non potrebbe nemmeno cominciare, sospendendo ogni atteggiamento tetico, cioè quello posizionale in generale, non rende possibile, di fatto, da parte dell'analista, alcuna attività destinata a formulare credenze in questo o in quel tipo di senso e di esistenza. Il fenomenologo, in altri termini, coglie il senso del senso e il senso dell'esistenza, così come essi sono rinvenibili in qualunque sistema culturale, senza porre mai né l'uno né l'altra.

 

1.    2.    5.    9.    11.    12.    13.    15.    18.

 


 

 

 

1. La cieca fiducia nel valore metaculturale dei fondamenti della propria cultura costituisce un vissuto ecumenicamente diffuso ed è, quindi, del tutto fisiologica, come lo è il suo esito più immediato, cioè il sentimento etnocentrico che non va, comunque, mai confuso con il razzismo. Il primo è fisiologico, mentre il secondo è patologico, essendo sintomo di disagio psicologico ed economico-sociale da parte di individui e di collettività umane. La perdita di una simile credenza, che dal punto di vista antropologico significa la presa di coscienza dell'assenza di fondamento della propria cultura, scandisce patologicamente le grandi crisi delle comunità umane, culminanti, di norma, nella loro estinzione culturale o, addirittura, fisica.

 

 

 

2. A mio avviso, tale automatismo non è riferibile in alcun modo all'inconscio o al preconscio, come, di norma, è inteso dagli antropologi che impiegano nei loro studi categorie psicanalitiche, ma è, semplicemente, il sintomo dell' avvenuta ominidizzazione del cervello del nuovo nato, dovuto ad una felice inculturazione. Perché una inculturazione abbia luogo, infatti, è necessario che "le regole di gioco" fondamentali, costituenti la base portante di un sistema culturale, divengano le leggi stesse del funzionamento del cervello e tale coincidenza rende queste "regole" evidentemente invisibili, perchè azzeratesi in esso, allo sguardo guidato dal cervello stesso. Tale inconsapevolezza, tuttavia, non rimanda, di per sé, ad alcun preconscio, ma alla banale assenza di quello scarto necessario tra il vedente e il veduto, perchè qualunque acquisizione coscienziale possa aver luogo. Si individua, qui, come una soglia estrema, invalicabile, oltre la quale cessa ogni visibilità e ogni tematizzabilità. Ecco perchè lo svelamento di questi automatismi culturali e la loro messa in questione sono eventi decisamente patologici e contrassegnano, normalmente, le grandi crisi culturali in atto, sovente irreversibili, dei singoli e delle collettività, che infrangono "l'incantesimo metaculturale".

 

 


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