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La distinzione tra natura e cultura, con tutte le sue molteplici varianti ed i suoi multiformi esiti - si pensi solo alla celebre dicotomia ottocentesca tedesca che opponeva le Naturwissenschaften alle Geisteswissenschaften e che ha alimentato un imponente e irrisolto contenzioso filosofico ed epistemologico, etichettato in Germania come Methodenstreit - non è fenomenologicamente originaria ed ecumenica e la si ritrova unicamente nell'universo dei vissuti personali che generano e mantengono in vita sistemi culturali specifici, classificabili, al di fuori della fenomenologia, storicamente, come occidentali o occidentalizzati. Ma tale dicotomia, apparentemente ovvia e pacifica, se si prova, poi, a maneggiarla per classificare ed interpretare dei dati, non è scevra di problemi, in particolare se essa la si intende ontologicamente, come è accaduto, in prima istanza, nelle vicissitudini del pensiero occidentale. Nel complesso processo della ominidizzazione di alcuni primati, l'inattesa interazione tra il cervello e la cultura, ha permesso l'esistenza di un organismo vivente che, come il nostro progenitore scimmiesco, essendo privo di un programma biologico di sopravvivenza, era destinato all'estinzione di massa, come è accaduto per il 90% delle specie viventi sul nostro pianeta, quando sono divenute inette a rispondere adeguatamente, come specie, agli stimoli di un ambiente ostile e distruttivo. Tale processo è stato, di necessità, lento, ma, a tal punto aurorale e precoce, da rendere vano qualunque tentativo di rintracciare una nitida linea di demarcazione tra la componente naturale e quella culturale nelle complesse vicissitudini di Homo.
La cultura, quindi, non va pensata come qualcosa che, sovrapponendosi semplicemente allo strato biologico di un essere o riempiendo con i propri contenuti un cervello immaginato come un contenitore vuoto di suppellettili, che attende di essere arredato, muta, in tal modo, un organismo vivente che, biologicamente, è un animale fallito come specie, in qualcosa di inaudito, in un essere umano. La cultura, pertanto, sviluppa e, soprattutto, complessifica il cervello. In realtà, il cervello umano è l'intersezione stessa di natura e storia, e l'uomo è l'intreccio inestricabile di naturale e di artefatto, di qualcosa che si trasmette geneticamente e di qualcosa di altro che si può trasmettere solo con il comportamento, cioè mediante l'inculturazione dei nuovi nati. E', insomma, un essere inedito che ha differito la propria estinzione di massa, inventando, come protesi, un sistema non biologico di sopravvivenza, costituito, appunto, dalla cultura. Ma questa strana creatura, in senso stretto, non può essere intesa, per altro, come costituente una specie vera e propria.
Forniscono, in tal senso, una indubbia testimonianza, tra molte altre, di questo intimo, intricato, viluppo, costitutivo della condizione umana, due inverse e opposte tendenze ideologiche, abbastanza note. C'è, anzitutto, quella, molto remota, che attribuisce una validità inquestionabile, assimilando, in tutto e per tutto, questa indiscutibilità all'inesorabilità di una "legge naturale", ai fondamenti, in realtà convenzionali, della propria cultura, ove l'evidente automatismo di credenze e di comportamenti degli indigeni viene recepito e inteso come un vero e proprio istinto biologico, senza, tuttavia, esserlo. Si immagina, in tal modo, di assicurarsi in sommo grado l'indefettibilità della funzione securizzante stessa della cultura, associandola all'inesorabile e cieco meccanicismo del biologico. La cultura come "seconda natura". Così, questa ostinata tendenza si identifica, senz'altro, con il vissuto fondamentale stesso della postura indigena. Ma c'è, inoltre, l'opposto orientamento che attribuisce un significato e un valore esclusivamente culturali alla realtà naturale in blocco, in particolare nelle sue più recenti formulazioni novecentesche, ove l'epistemologico è stato rimosso a vantaggio del retorico e dell'ermeneutico e i fatti sono stati dissolti nel denso nugolo delle interpretazioni. Tale orientamento è, in verità, avallato, in una certa misura, dal palese e non sempre cosciente relativismo metodologico, in atto da tempo nelle scienze del Novecento. Ed è proprio nell'ambito di quest'ultima istanza metodologica che la dicotomia occidentale "natura-cultura" ha trovato, a mio avviso, la sua più recente e più convincente riformulazione, laddove si afferma il generale principio epistemologico che è lecito ed è corretto parlare di natura e di cultura solo ed unicamente all'interno delle corrispondenti discipline scientifiche e, quindi, relativamente a quelle che trattano di temi e di problemi che le riguardano. Al di là del perimetro metodologico che le ipotesi e i dati sperimentali hanno tracciato, è impossibile enunciare alcuna cosa di scientificamente significante e tanto meno, poi, è legittimo cercare di estrapolarla da esso, magari per sospingerla, come direbbe I. Kant, "verso l'incondizionato", addobbandola, cioè, come "un in sé". Quando viene enunciato qualcosa, insomma, tale asserto ha un significato, una portata ed un valore scientifici reali solo se esso ci dice anche in base a quali principi, ipotesi, condizioni e dati, è stato possibile formularlo.